INCHIESTA: MORTE DI BORSELLINO
DOPO 26 ANNI FINALMENTE
S’INDAGA ANCHE SUI MAGISTRATI
PER IL GRAVE DEPISTAGGIO ORDITO
SULLA STRAGE DI VIA D’AMELIO
DALLA TRIADE MAFIA-007-MASSONERIA:
VERITA’ E GIUSTIZIA IN MANO AL CSM
GUIDATO DAL SICILIANO MATTARELLA
di Fabio Giuseppe Carlo Carisio
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«Com’è possibile che i magistrati non si siano accorti di quello che stava accadendo? Le tesi investigative proposte sono state accettate da schiere di magistrati, sia giudicanti che inquirenti. Questi ultimi, peraltro, avendo il coordinamento delle indagini, avrebbero dovuto coordinare e controllare il lavoro delle forze dell’ordine». È a questa domanda che dovranno rispondere la Procura generale della Corte d’Appello di Messina cui sono stati trasmessi gli atti dai colleghi di Caltanissetta che hanno istruito il processo su “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana” come ammesso dai giudici nella sentenza sul cosiddetto Borsellino quater, il quarto procedimento per la strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992. È a quella domanda sul ruolo dei magistrati, pubblicamente rivolta alle istituzioni da Fiammetta Borsellino, figlia del giudice assassinato, che è appeso il senso dello Stato e della giustizia in una vicenda che partendo dalla strage mafiosa di Palermo attraversa l’Italia per evocare massoneria e servizi segreti. Finalmente, a distanza di ben 26 anni, si comincia ad indagare anche su quei magistrati che per negligenza consentirono o parteciparono, è proprio ciò che dovrà essere appurato, al depistaggio nell’accertamento delle responsabilità dell’attentato derivante dalle dichiarazioni manipolate del pentito Vincenzo Scarantino che, come acclarato dal procedimento Borsellino quater e successive indagini, fu “indotto a mentire” accusando sé stesso ed altri soggetti innocenti e coinvolgendoli nella strage.
IL FILO ROSSO CHE LEGA LE STRAGI
Uno dei primi magistrati rimasti uccisi da un’autobomba, il giudice istruttore Rocco Chinnici che alzò il tiro contro i mafiosi in giacca e cravatta proprio con l’aiuto di Falcone e Borsellino, affermò che “C’è un filo rosso che lega tutti i grandi delitti. Un unico progetto politico…” ebbene l’inchiesta di Messina sui magistrati coinvolti dal depistaggio nei confronti della bestiale esecuzione di un collega e degli agenti della sua scorta, è l’ultima occasione che ha la giustizia italiana per afferrare in extremis un capo di quel filo e cominciare a dipanare la matassa delle stragi eccellenti che vanno da via D’Amelio a ritroso fino a Capaci e all’assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, a quello dello stesso Chinnici e prima ancora del giudice Emilio Alessandrini. Un omicidio meno famoso quest’ultimo ma sul quale indagó da magistrato l’ex presidente onorario di Cassazione Ferdinando Imposimato. Un delitto che con altri diede il via a quel periodo della tensione, o regime del terrore che dir si voglia, degli Anni di Piombo e delle stragi ancora gravide di misteri dalla Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano e alla stazione di Bologna. Episodi in cui nelle annose indagini sovente depistate anche con ulteriori attentati è venuta a galla la commistione tra Massoneria e Servizi Segreti nazionali ed internazionali (Gladio o Stay Behind) che per fare il lavoro sporco utilizzarono a volte il terrorismo rosso o nero, sfruttando i fanatismi ideologici ed armandoli (come ancora di recente ha fatto la Cia in Siria con l’Isis), altre volte quella Mafia resa potente e prepotente dagli accordi tra gli Alleati con Lucky Luciano per lo sbarco in Sicilia che segnò il rientro del boss siculo-americano di Cosa Nostra e di molti esponenti di famiglie mafiose emigrati negli Usa dopo le perentorie azioni di polizia del Prefetto di Ferro Cesare Mori ordinate dal duce Benito Mussolini.
IMPOSIMATO E IL DOCUMENTO SUL NUOVO ORDINE MONDIALE
Ebbene questo complottismo più volte riecheggiato in tante altre inchieste giudiziarie (dal delitto di Aldo Moro alla strage del DC 9 ad Ustica abbattuto dal missile di provenienza ancora oggi sconosciuta) emerse chiaramente in un documento rinvenuto da Imposimato nell’inchiesta sull’omicidio di Alessandrini che faceva riferimento al Nuovo Ordine Mondiale sovrastatale. Un documento inquietante che si aggiunge alle misteriose sparizioni di altri come il contenuto della borsa di pelle marrone di Dalla Chiesa, come i floppy disk di Falcone, l’agenda rossa di Borsellino ed importanti prove sull’omicidio del giornalista Mauro Rostagno, ammazzato per le sue investigazioni sulla Loggia Scontrino di Trapani, crocevia di massoni occulti, noti mafiosi, importanti politici e persino musulmani.
Proprio grazie ad un altro boss dei due mondi, ovvero Tommaso Buscetta, Giovanni Falcone riuscì a individuare le correlazioni criminose tra gli imprenditori e politici siciliani collusi con la mafia (Ciancimino, Lima, fratelli Salvo). Proprio Falcone divenne punto riferimento persino della FBI americana (che a Quantico gli ha concesso eterno onore con un busto) comprendendo con l’aiuto del collega Borsellino le ramificazioni di Cosa Nostra che si intrecciavano tra Italia e Usa: culminate nella cosiddetta inchiesta Pizza Connection sul traffico di droga: intrecci che come insegna la storia attengono mafia, massoneria e servizi segreti da Lucky Luciano a Franck Gigliotti in poi, ma ancora prima dalla collaborazione tra Giuseppe Mazzini, Albert Pike ed il premier inglese Lord Palmerston che guardacaso scatenò persino una guerra contro la Cina per aprire nuovi mercati all’oppio proveniente dall’India britannica. Ma ogni volta che Falcone chiese a Buscetta di arrivare al terzo livello, ovvero i politici di rango nazionale ed internazionale, il pentito gli rispose che non esistevano le condizioni politiche perché lui potesse rivelare quei mandanti. Sappiamo bene come, proprio a giudizio dello stesso Borsellino, la morte di Falcone cominciò col suo siluramento da parte del CSM quando non fu nominato giudice istruttore di Palermo e, relegato ad occuparsi di processetti, dovette assistere alla distruzione del pool antimafia costituito da Antonio Caponnetto ed alle “inchieste spezzatino”, come i cronisti siciliani definirono le indagini sminuzzate tra più pm e private di un reale coordinamento generale che ne consentisse una visione d’insieme.
Stessa sorte di spezzettamento toccata tra il 1991 ed il 1992 alla famosa Informativa Caronte dei Carabinieri del Ros della Regione Sicilia riguardante mafia, appalti pubblici e politica, come attestato dal procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso in un’audizione alla Commissione Parlamentare (22-10-12), da cui emerge il clima di diffidenza verso Falcone degli stessi magistrati di Palermo che lo costrinsero a trovare rifugio presso il ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli, poi sostituito in una girandola di ministri che vide arrivare Nicola Mancino all’Interno ed è stata il fulcro del caotico processo sulle trattative Stato-Mafia. In questo processo spiccano proprio l’ assoluzione dei politici (Mancino e Mannino) e le perentorie condanne del generale Antonio Subranni, comandante dei Ros dei Carabinieri di Palermo, e dei suoi ufficiali Mario Mori e Giuseppe De Donno e di altri imputati tra cui Marcello Dell’Utri per i contatti con Vito Ciancimino per trattare con i boss Riina e Provenzano per fermare gli attentati dinamitardi degli anni 1992-1993. Ma non è emerso nulla più di questo presunto accordo tra pezzi deviati dello Stato e mafiosi che peraltro non avrebbe prodotto grandi benefici a questi ultimi, visto che due dei grandi capi di Cosa Nostra, Totò Riina e Bernardo Provenzano sono morti in regime di carcere duro 41 bis.
STATO-MAFIA: IL SILENZIO DEI PRESIDENTI
In queste vicende tutt’altro che trasparenti si staglia come una ferita al diritto di conoscenza del popolo italiano, in nome del quale i Tribunali pronunciano le sentenze, la distruzione delle intercettazioni tra l’indagato per falsa testimonianza Mancino (poi assolto) ed il Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano. Rappresenta un riguardo fin troppo ossequioso la rinuncia ad ascoltare nel processo Stato-Mafia l’attuale presidente Sergio Mattarella, citato, prima della sua elezione a Capo dello Stato, dagli avvocati di Mancino che poi ritirarono la convocazione per “economia processuale”, che rappresenta l’anello di congiunzione tra l’odierna classe politica, quella del dopo Tangentopoli in cui fu più volte ministro, l’ex Democrazia Cristiana, della quale fu vicepresidente nazionale accanto al plurindagato Forlani, ed anche “de relato” il primo governo di Palermo del dopoguerra, nel quale il padre Bernardo fu assessore dal 1943 nominato proprio dai già citati Alleati tramite l’Amgot. Mattarella è infatti un politico di spicco siciliano che dovrebbe conoscere bene le relazioni tra massoneria, servizi segreti e mafia in virtù dei suoi molteplici incarichi politici quale capo del Comitato Probi Viri a scovare i democristiani affiliati alla massoneria dopo lo scandalo P2 di Licio Gelli, vicepremier con delega ai Servizi Segreti tra il 1998 ed il 1999 nel Governo D’Alema, ed infine presidente del Consiglio Superiore della Magistratura dal 2015 in qualità di Capo dello Stato. Un siciliano sul quale pesa la minuscola quanto imbarazzante ombra del processo per la cosiddetta Tangentopoli Siciliana, da cui uscì completamente scagionato ma in cui fu condannato l’imprenditore Filippo Salamone, il costruttore di fiducia di Cosa Nostra, ricettacolo di numerosi appalti pubblici nella Sicilia degli anni ‘80. Quest’ultimo, deceduto nel 2012, sostenne di aver dato 50 milioni per la campagna elettorale a vari politici siciliani tra cui proprio Mattarella che, indagato e messo alle strette, ammise di aver ricevuto solo 3 milioni in buoni benzina e di averli accettati quale omaggio di modesto valore.
LA TRIADE MAFIA-007-MASSONERIA E L’INCHIESTA SUI MAGISTRATI
Proprio sulla triade massoneria- 007-mafia si dipana la storia siciliana dall’unità d’Italia in poi. Ed è pure sulle ipotetiche connessioni mafia-servizi segreti che verte il processo di Caltanissetta per calunnia a carico di due poliziotti ed un Questore accusati di depistaggio nelle indagini sull’attentato a Paolo Borsellino in complicità con la presunta “mente” nella gestione del pentito calunniatore Scarantino, ovvero il defunto dirigente della Squadra Mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, già consulente del Sisde col nome in codice Rutilius. Ma è alquanto difficile che da questo processo emergano novità degne d’importanza per la morte del superpoliziotto La Barbera e per il ruolo dei suoi subordinati incriminati: o non è stato doloso, a differenza di ciò che sostiene la pubblica accusa, e perciò sono stati inconsapevoli strumenti di un ingranaggio a loro oscuro; oppure, se sono stati davvero complici del premeditato depistaggio, già avevano messo in conto le eventuali conseguenze giudiziarie dei loro gesti ed hanno avuto 26 anni di tempo per preparare la linea difensiva ed occultare prove. Ecco perché assume invece importanza fondamentale chiarire il ruolo dei magistrati coinvolti in uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana. Perché la convinzione di impunità che contraddistingue la casta delle toghe in Italia può rappresentare l’elemento fragile nell’architettura del depistaggio che oggi sarà filtrato da un’inchiesta a Messina ma anche dall’apposita Commissione istituita dal Csm proprio a fronte delle domande insistenti di Fiammetta Borsellino sul ruolo dei magistrati ed in particolare dell’allora procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra (deceduto l’anno scorso). «Non parlo di responsabilità specifiche, ma nomino quei magistrati perché è giusto dire chi si è occupato dei processi in quegli anni. Non sta a me stabilire se ci fu dolo o inesperienza, ma su una strage non si mettono a indagare pm alle prime armi. In questi 25 anni dalla strage ci doveva essere una vigilanza maggiore sui processi e sulle indagini fatte. Si è detto in numerose occasioni dei rapporti di Tinebra (con la massoneria – aggiunse la figlia di Borsellino nel 2017 davanti alla Commissione palramentare antimafia – non ci sono state smentite e ora mi preme ribadire questo argomento che va riletto insieme agli esiti dei processi sulla strage». I magistrati messinesi così come il Csm dovranno quindi verificare le eventuali responsabilità nella gestione del pentito Scarantino e negli anomali colloqui investigativi autorizzati anche da uno dei pm più famosi d’Italia: il magistrato Ilda Boccassini che si è giustificata dicendo “di non ricordare i motivi di quell’esigenza che fu rappresentata dal Procuratore Tinebra” ma ne avvalorò l’importanza in una conferenza stampa il 19 luglio 1994 salvo poi mettere in dubbio le dichiarazioni dello stesso pentito in una lettera firmata insieme al pm Roberto Sajeva. L’inchiesta della Procura di Messina analizzerà anche il ruolo e le eventuali responsabilità nel depistaggio degli altri pm che si occuparono dell’inchiesta: ovvero del procuratore aggiunto Francesco Paolo Giordano e del sostituto Fausto Cardella, che firmarono alcuni atti nelle prime indagini, dei pm Carmelo Petralia ed Annamaria Palma (in servizio a Caltanissetta dal luglio 1994) e dell’attuale sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo che però dell’inchiesta sulle stragi si occupò, a partire dal novembre 1994, solo nella fase dibattimentale chiedendo l’assoluzione di quattro dei sette imputati proprio perché accusati solo da Scarantino. Proprio il pm Di Matteo è già stato sentito dalla Commissione del Csm, che ascolterà tutti gli altri suoi colleghi che indagarono sulla strage, il quale ha rimarcato che il «depistaggio cominciò con il furto dell’agenda rossa. E a rubarla non possono essere stati i boss di Cosa nostra»: su quel diario Borsellino annotava tutti i suoi appunti più scottanti e delicati.
ESISTONO LE CONDIZIONI POLITICHE PER LA VERITA’?
Mentre si avviano le indagini per appurare perché avvenne il depistaggio e che ruolo ebbero i magistrati titolari dell’inchiesta sulla strage tornano alla mente le parole che Buscetta ripeteva a Falcone sulle condizioni politiche per fare luce sulla verità. Nell’Italia in cui è presidente del Csm e della Repubblica un avvocato siciliano che è stato eminenza grigia dello Stato a più livelli senza accorgersi, smascherare o denunciare questi loschi intrighi ci sono queste condizioni politiche? Nell’Italia in cui i cinquestelle si preoccupano solo della prescrizione dei reati e non di una seria riforma del sistema giudiziario c’è la speranza che queste inchieste stanino i veri colpevoli di un’infamia che ha ucciso due volte un eroe dell’antimafia come Borsellino? Nell’Italia in cui gli stessi giudici del CSM hanno eletto vicepresidente l’avvocato David Ermini, deputato Pd (come Mattarella), braccio destro di quel Matteo Renzi, fortemente voluto da Barack Obama e beneficiario con la famiglia degli aumenti di capitale societario viziati dalla distrazione di fondi per i bambini africani provenienti da Operation Usa, fondazione in cui siede un senatore ex vicepresidente del Comitato di Sicurezza Nazionale di Obama presieduto dal direttore della Cia (link sotto), ci sono i margini perché si possa dipanare la matassa dove mafia, servizi segreti italo-americani e massoneria si sono intrecciati e ingarbugliati?
A questo fondamentale quesito per la sopravvivenza del senso di giustizia in Italia possono rispondere solo i magistrati di Messina e del Csm col supporto e la vigilanza del Parlamento Italiano e del Governo dei cambiamenti di Luigi Di Maio e Matteo Salvini: proprio da quest’ultimo è giunto il primo segnale di attenzione ovvero la costituzione come parte civile del Ministero dell’Interno al processo nisseno a carico dei tre poliziotti presunti depistatori. Ma è soltanto un atto quasi dovuto anche per consentire al Viminale di rispondere ai 7 mafiosi ingiustamente condannati a causa dei depistaggi che nello stesso procedimento si sono costituiti parte civile per chiedere i danni allo Stato. Uno dei tanti paradossi della lotta alla mafia che rimane un’emergenza sempre gestita con tanta retorica nelle varie Commissioni parlamentari, moltissime secretazioni di testimonianze ed atti e poco incisivo pragmatismo. Una lotta che può trovare risposta solo in una riforma del Consiglio Superiore della Magistratura e nella conseguente ferrea applicazione dei provvedimenti disciplinari e nella responsabilità penale e civile delle stesse toghe. Perché oggi paga, e non sempre, solo il magistrato che viene preso con le mani nella marmellata ma non quello che per collusione, negligenza o amicizia ha consentito ad altri di mettercele. Anche se erano sporche di sangue come nel depistaggio della strage di Via d’Amelio.
Fabio Giuseppe Carlo Carisio
© COPYRIGHT GOSPA NEWS
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http://www.gospanews.net/en/2018/10/22/politica-malaffari-1/
http://www.gospanews.net/en/2018/10/22/toga-rossa-la-trionfera/
FONTI GIORNALISTICHE