UCCISO IL RAIS LIBICO PAGATO DALL’ITALIA: ottenne $5 milioni per fermare i migranti
E’ MORTO IN COMBATTIMENTO A TRIPOLI
IL TRAFFICANTE DI UOMINI E DI TERRORISTI ISIS
FITOURI AL DABBASHI PROTEGGEVA L’IMPIANTO ENI
BOMBARDATO NEL MESE DI GIUGNO DA HAFTAR
CHE LUCRA SUL CONTRABBANDO DI PETROLIO
___di Fabio Giuseppe Carlo Carisio ___
Sabrata (in arabo: صبراته,) è una città della Libia nord-occidentale fondata dai Fenici e poi conquistata dai Romani. Dal 1982 le vestigia del suo antico splendore, tra cui un teatro romano, sono state inserite nella lista dei Patrimoni dell’Umanità dell’UNESCO. Si trova a 70 km da Tripoli e a 100 dal confine con la Tunisia.
Ma il suo ruolo è oggi rilevante e strategico per altri motivi: è a pochi chilometri sia dal punto d’imbarco dei barconi dei migranti diretti in Italia che dal deposito di petrolio e gas di Mellitah (Tajoura), della joint-venture tra l’azienda libica National Oil Corporation (NOC) e l’italiana ENI (Ente Nazionale Idrocarburi). Proprio dalla piattaforma di Sabrata parte il Greenstream, il gasdotto sottomarino di 520 km che collega la Libia con la Sicilia, a Gela, da dove il gas viene redistribuito in tutta Italia.
IL PICCOLO RAIS COSTATO CARO ALL’ITALIA
Proprio per preservare quel nodo cruciale nel 2017 l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti, con il benestare del governo Paolo Gentiloni, stipulò un accordo con il rais militare di uno dei clan che per primo aveva intuito l’importanza di Sabrata e ne aveva preso il controllo.
Oggi quel miliziano, i cui servigi sarebbero costati all’Italia 5 milioni di dollari, è stato ucciso durante i combattimenti che lo vedevano schierato con i Martiri di Sabrata a supporto del presidente Fayez al-Sarray, Presidente del Consiglio Presidenziale e Primo ministro del Governo di Accordo Nazionale della Libia formati in seguito all’accordo di pace del 17 dicembre 2015.
«La notizia è confermata, el Fitouri al Dabbashi è morto negli scontri tra milizie rivali a sud di Tripoli. La morte di al Dabbashi, che era ricercato per terrorismo e per legami con lo Stato Islamico, è notizia rilevante anche per l’Italia, non solo per gli equilibri interni tra le milizie libiche» riferisce Raffaele Masto sul blog Buongiorno Africa. La news è stata riportata con risalto anche da InsideOver, la rubrica di geopolitica e reportages di guerra de Il Giornale, dopo vari lanci dell’AgenziaNova, un media sponsorizzato da Leonardo, la multinazionale di armamenti e difesa controllata dallo Stato italiano
Il timore è che questa morte possa avere gravi ricadute sulla sicurezza dell’impianto energetico ENI e sul traffico dei migranti appare in realtà poco fondato. Lo spiega chiaramente sempre il blogger Masto: «La posizione strategica di Sabrata fa comprendere il peso politico di un personaggio come el Fitouri al Dabbashi, anche se oggi lo scenario e’ radicalmente mutato. Sabrata e’ attualmente nelle mani delle forze del generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica che dal 4 aprile scorso assedia Tripoli».
In un prossimo reportage vedremo come il leader militare Haftar, comandante dell’esercito nazionale libico (LNA), ritenuto un agente della CIA anche per il lungo periodo trascorso negli Usa senza un apparente occupazione, sia riuscito a rafforzare il suo contingente militare grazie ad una triplice attività criminale: il traffico di migranti, il contrabbando di petrolio, il contrabbando di valuta forte (euro e dollaro) e l’utilizzo di una banca centrale parallela per l’immissione sul mercato di dinari libici stampati in Russia.
Oggi ci soffermiamo ad analizzare il fallimento della politica italiana in Libia che con una manovra suicida diede l’appoggio logistico delle Basi Nato alla Francia, sospettata di fornire armi alle milizie di Haftar, e agli Usa per scatenare la cosiddetta Primavera Araba a supporto del Consiglio Nazionale di Transizione che riuscì a rovesciare il colonnello Muhammar Gheddafi uccidendolo e segnando così la fine della stabilità in Libia per il continuo conflitto tra LNA e GNA in una lotta senza quartiere per il controllo delle grandi risorse enegetiche del paese da parte delle potenze occidentali.
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Quanto accaduto è quasi patetico. La Repubblica Italiana, per volontà del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (capo delle forze armate), ha sostenuto una guerra contro il presidente libico Gheddafi che in precedenza aveva stipulato vantaggiosi accordi sia per una joint-venture energetica con Eni che per il controllo delle migrazioni grazie all’amicizia ed all’abilità diplomatica dell’ex premier Silvio Berlusconi, indotto da Napolitano a concedere l’uso delle basi italiane Nato per l’attacco in Libia.
E successivamente il Governo Gentiloni ha speso 5milioni di dollari per accordarsi con un piccolo rais locale, pronto ad aiutare chiunque per denaro e potere e ritenuto fiancheggiatore dell’Isis, per porre rimedio alle conseguenze del disastro creato con l’eliminazione, il 20 ottobre 2011, di Gheddafi, unico leader capace di garantire l’ordine in un paese minato da rivalità tribali e ambito dagli speculatori internazionali delle lobby di petrolio e armi.
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L’ASCESA DI HAFTAR GRAZIE ALL’APPOGGIO DELLA FRANCIA
In questo processo estremamente sintetizzato un ruolo importante lo ebbero sia il generale Haftar che il capoclan Fitouri al Dabbashi. Entrambi, infatti furono tra i primi leader militari ad opporsi al regime di Gheddafi.
L’attuale comandante dello LNA, che sta seminando morti senza sosta dopo l’attacco per la conquista di Tripoli nel conflitto tra Ciad e Libia fu uno dei comandanti dell’esercito della Libia. Nel 1987, durante la guerra contro il Ciad, fu preso prigioniero nel corso della battaglia di Wadi al-Dum. In prigionia formò un contingente di circa 2 000 prigionieri libici, la “Forza Haftar”, equipaggiata dagli Stati Uniti, col compito di rovesciare il regime libico. Fu rilasciato nel 1990 grazie ai buoni uffici statunitensi e trascorse quasi 20 anni negli USA, ottenendo anche la cittadinanza di quel Paese. Nel 1993, mentre si trovava nella sua residenza di Vienna, in Virginia, fu condannato in patria, in contumacia, alla pena capitale per “crimini contro la Jamāhīriyya libica”.
Nel 2011 è tornato in patria per sostenere attivamente l’insurrezione contro il regime di Gheddafi. Ad aprile Abd al-Fattah Yunis ha assunto la funzione di comandante in capo delle forze armate ribelli, Omar al-Hariri ha assunto la carica di Capo di Stato Maggiore di Yunis e Haftar è diventato il numero 3 della gerarchia dell’esercito, col grado di tenente generale.
Il suo potere sì è però consolidato durante la Seconda Guerra Civile Libica nella coalizione della Camera dei Rappresentanti sostenuta da Egitto, UAE, Francia, Usa, Regno Unito, Russia, Arabia Saudita, Ciad, Algeria in contrapposizione all’Esercito di Misurata (appoggiato dai Fratelli Musulmani di Qatar, Turchia con l’aiuto del Sudan) ed allo Stato Islamico. In una seconda fase del conflitto lo stesso LNA di Haftar si scontrò con il GNA sostenuto da Italia, Europa e Onu con l’apoggio formale di Usa e Regno Unito.
La sua ascesa non ha avuto limiti anche per il supporto della Russia, intenzionata a non essere tagliata fuori dallo scacchiere libico dopo l’inizio del conflitto siriano scatenato dagli Usa con il finanziamento dei ribelli FSA e dell’ISIS, ma soprattutto dalla Francia che, a differenza di Mosca, ha continuato a sostenere Haftar anche dopo l’offensiva di Tripoli.
Una prova inequivocabile affiorò il 10 luglio scorso quando i quotidiani riportarono la notizia del ritrovamento di armi francesi nei depositi Lna nei territori occidentali del paese. «Erano stati comprati dalla Francia negli Stati Uniti i quattro missili anticarro “Javelin” ritrovati in Libia, la settimana scorsa, in una base del generale Khalifa Haftar nella città di Gharian – ha scritto Repubblica – La città era stata occupata con un attacco a sorpresa dei soldati del presidente Fajez Serraj, che in un deposito abbandonato dagli haftariani hanno trovato appunto i Javelin. Il giallo sembrerebbe risolto, con l’ammissione che i 4 ordigni erano stati acquistati proprio dal ministero della Difesa francese in un lotto di 260, nel 2010, un anno prima dello scoppio della rivoluzione in Libia».
Era stato il New York Times, sulla base di informazioni del Dipartimento di Stato Usa, a rivelare che i missili erano costati 170 mila dollari l’uno e venivano generalmente venduti agli alleati.
Il ministero della Difesa francese ha spiegato che erano stati forniti per autodifesa alle forze francesi “schierate a scopi di intelligence antiterrorismo” in Libia; i missili “danneggiati e fuori uso” erano stati “temporaneamente immagazzinati in un deposito per la distruzione”. “E non sono stati trasferiti alle forze locali”, i ribelli filo-Haftar: queste armi erano “di proprietà delle nostre forze per la loro stessa sicurezza e non è mai stata in questione la possibilità di vendere, cedere, prestare o trasferire queste munizioni a chiunque in Libia”.
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Le assicurazioni di Parigi hanno lasciato però aperti molti dubbi in quanto gli 007 e le forze speciali francesi sono di stanza nell’est del Paese, molto lontano da Tripoli e dal luogo di ritrovamento dei missili Javelin che hanno un raggio di azione di tre chilometri ed essendo molto sofisticati vengono utilizzati contro mezzi blindati, carri armati o elicotteri in volo a bassa quota. Un’arma quindi troppo costosa e potente per essere adoperata contro i pick-up Toyota dei jihadisti.
L’IMPIANTO ENI “PROTETTO” DAL CLAN AL DABBASHI
Il Greenstream è il principale gasdotto tra Italia e Libia. E’ operativo dal 1º ottobre del 2004 ed i suoi lavori di costruzione si sono svolti con notevole rapidità, essendo iniziati ad agosto 2003 e ultimati nel febbraio dell’anno successivo. La posa dei tubi è stata eseguita dalla Saipem. L’inaugurazione è avvenuta il 7 ottobre dello stesso anno, da Silvio Berlusconi e da Mu’ammar Gheddafi.
E’ controllato da Eni (quota del 75%) e NOC (quota del 25%) nel quadro della più ampia joint-venture paritetica denominata Western Libyan Gas Projects e fa parte del sistema di trasporto del gas libico Libyan Gas Transmission System. Consente al gas estratto dai giacimenti di Bahr Essalam (offshore) e Wafa (nel deserto libico, al confine con l’Algeria) di essere trasportato in Sicilia e di qui al resto dell’Italia. L’investimento totale è stato di 7 miliardi di euro, di cui 3,7 in quota Eni.
Il fulcro nevralgico dell’attività energetica è rappresentato dal deposito di gas e petrolio (proveniente dalle piattaforme petrolifere nelle acque di fronte a Sabrata) di Mellita che dopo la caduta del regime di Gheddafi ha cominicato a diventare un’area assai pericolosa sotto il controllo di un noto clan libico.
«Vicinanza ad uno degli stabilimenti più importanti etraffico di migranti, sono questi i due elementi su cui gli Al Dabbashi basano la propria fortuna. Fitouri Al Dabbashi viene considerato da subito come uno dei più attivi esponenti del clan. Già nel 2011 è segnalato quale uno dei principali sostenitori dei ribelli locali anti Gheddafi, successivamente risulta impegnato soprattutto nel traffico di esseri umani. Ma non solo: così come rivela AgenziaNova, che prende spunto da fonti della cabina di regia anti terrorismo di Sabratha, Fitouri risulta impegnato dal 2012 in attività terroristiche. In particolare, per diversi anni avrebbe facilitato l’ingresso di terroristi dell’Isis dalla Tunisia» scrive Mauro Indelicato su InsideOver rivelando così il ruolo di Fitouri cresciuto grazie all’uccisione del presidente libico ma anche della sua famiglia.
Ibrahim al Dabbashi è stato ambasciatore libico alle Nazioni Unite, Mostafa al Dabbashi, e un ex ministro dell’Interno del governo del primo ministro Abdullah al Thinni. Ma altri esponenti deglla famiglia sono finiti dietro le sbarre per complicità con i terroristi: Wissam al-Dabbashi, soprannominato al-Batsha, cugino di al-Fitoury, è attualmente incarcerato con Muneer al-Dabbashi in una prigione gestita da RADA. le forze speicali del Ministero dell’Interno di Tripoli. Entrambi furono accusati di offrire riparo agli elementi estremisti che furono portati dalla vicina Tunisia.
L’atteggiamento di Fitouri è molto simile a quello di un boss mafioso: poco dopo l’uccisione di due operai italiani della Bonatti rapiti insieme ad altri due connazionali, rivela in un’intervista dettagli su quell’episodio e si accredita come “vigilantes”. «Le nostre attività, mie e della milizia, sono la messa in sicurezza della regione e la sorveglianza dello stabilimento di Mellitah» dichiara l’esponente degli Al Dabbashi in quell’occasione come riportato da InsideOver.
«Ma è soprattutto con l’emergenza immigrazione del 2017 che il ruolo degli Al Dabbashi risulta decisivo per le politiche del nostro Paese. Nell’agosto di quell’anno l’allora ministro dell’interno Marco Minniti, di concerto con il resto del governo Gentiloni, decide di elargire fondi a Tripoli per aiutare le istituzioni libiche a sorvegliare le coste ed a frenare le partenze» aggiunge il giornalista Indelicato.
Per rimediare ai danni dell’eliminazione di Gheddafi appoggiata dal presidente Napolitano, ex deputato Partito Democratico, i suoi compagni di schieramento ricorrono al piccolo rais militare, prendendo così due piccioni con una fava: arginano la partenza dei migranti, destinati all’Italia per l’accordo nell’ambito dell’operazione Triton firmato dall’ex premier Matteo Renzi, ex segretario Pd, e garantiscono la protezione all’impianto ENI
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«Cinque milioni di Euro partono quindi da Roma in direzione della capitale libica. Come rivela però un reportage delleReuters, quelle somme finiscono in realtà all’interno dei portafogli dei clan che gestiscono il traffico di esseri umani – aggiunge InsideOver – Di fatto, quei soldi diventano il motivo per il quale gli organizzatori dei viaggi della speranza accettano di far rimanere a terra i barconi. Tra quei clan risulta ovviamente anche quello degli Al Dabbashi. I milioni finiti nelle loro tasche rompono però alcuni equilibri locali, con le milizie rivali che non ci stanno a non partecipare alla divisione di quelle somme. Si arriva così a scontri interni a Sabratha, in cui gli Al Dabbashi hanno la peggio».
I BOMBARDAMENTI DI HAFTAR AL DEPOSITO ENI
Haftar conosce bene l’importanza strategica di quella zona e gli interessi che hanno sul gas ed il petrolio i suoi amici in Francia e negli USA. Per questo alcune milizie vicine alla coalizione LNA la conquistano costringendo al Dabbashi a rifugiarsi a Tripoli dove porta i suoi uomini a dare manforte alle forze del governo di Al Sarraj. Ma è proprio nei pressi della capitale libica che viene ucciso nei combattimenti, con tutta probabilità dagli uomini del generale filo-americano.
Da quando i gruppi dell’esercito LNA prendono il controllo della riviera di Sabrata la lucrosa tratta degli esseri umani, gestita con organizzazioni malavitose della Nigeria e di altri paesi dell’Africa, riprende con grande intensità rivelando inutile la cospicua spesa di 5milioni di dollari sostenuta dal Governo Gentiloni. Ma è anche lo stabilimento Eni, nel giugno scorso, a finire nel mirino del generale libico.
«Le truppe di Haftar hanno attaccato il deposito di petrolio e gas della National Oil Corporation (NOC) ed Eni di Mellita (Tajoura). Ciò, come conferma il presidente di FederPetroli Italia Michele Marsiglia in una nota, “ci costringe a questo punto a bloccare qualsiasi tipo di operazione in Libia. Siamo in contatto costante con alcune rappresentanze a Tripoli per conoscere maggiori dettagli – ha proseguito – in primo luogo va espressa la nostra vicinanza alle famiglie degli operatori che sono rimasti coinvolti in questo brutto e devastante accaduto. Nelle prossime ore avremo maggiori dettagli sulla presenza dei materiali del deposito e l’ammontare della consistente perdita”.
«Quando una fazione o l’altra arriva ad attaccare la risorsa strategica petrolifera di un paese, vuol dire che la situazione non ha più controllo e, questo può essere solo in primo passo ed avvertimento su eventuali attacchi ad infrastrutture strategiche della produzione petrolifera in Libia». Inoltre, Marsiglia ha sottolineato che il bombardamento di Mellita da parte dell’LNA non è solo un attacco al paese africano. «Ma in primis un forte segnale di attacco all’Italia, essendo ENI primo e unico partner» con la NOC. Già nel mese di aprile, subito dopo l’inizio dell’offensiva di Haftar, l’Eni aveva evacuato per ragioni di sicurezza una parte del suo personale in Libia.
Fin dal 21 febbraio le forze del generale che si sono espanse nel sud del paese, hanno preso il controllo del campo petrolifero El Feel a Murzuq. L’estrazione di 75mila barili di greggio al giorno non ha subito interruzioni, ma il campo viene gestito anche dall’Eni. L’attacco al deposito di Mellita può essere vosto come una mera intimidazione proprio per ottenere maggiore libertà nel contrabbando di petrolio negli altri impianti. Haftar sa bene che un’azione più dirompente costringerebbe l’Italia ad un’operazione militare di protezione del prezioso gasdotto.
Il futuro della Libia resta infatti quanto mai incerto dopo il fallimento dei negoziati per la pace a causa della debolezza politica della Conferenza Internazonale guidata dall’Italia, primo partner del presidente Al Serray riconosciuto dalla comunità internazionale. Ora è la Germania a scendere in campo proponendosi come capofila di un nuovo vertice dopo l’inutile tentativo di Emmanuel Macron di fare da paciere tra LNA e GNA. Ma difficilmente Hafar accetterà un accordo di pace rinunciando alla sua leadership ed ai crimini internazionali che lo stanno rendendo sempre più ricco e potente come vedremo nel prossimo reportage.
Fabio Giuseppe Carlo Carisio
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INSIDE OVER – UCCISO FITOURI AL DABBASHI
REPUBBLICA – I MISSILI JAVELIN DELLA FRANCIA
DIFESA E SICUREZZA – HAFTAR BOMBARDA L’ENI
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