Nell’immagine di copertina gli storici combattenti contro la mafia: il generale Mario Mori e il capitano Ultimo, che arrestarono Totò Riina, e i loro punti di riferimento investigativo nell’Informativa Caronte del Ros dei Carabinieri: i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, entrambi uccisi insieme agli uomini delle loro scorte in due complessi attentati dinamitardi realizzati da Cosa Nostra con la complicità del Deep State che nel caso delle indagini sulla strage di Via D’Amelio ordì il più grave depistaggio della storia giudiziaria italiana.
AGGIORNAMENTO DEL 30 APRILE 2023
LA CASSAZIONE CONFERMA LE ASSOLUZIONI DEI CARABINIERI
Il 23 settembre 2021 la Corte d’assise d’appello di Palermo aveva assolto Mario Mori, insieme agli ufficiali del Ros Subranni e De Donno, dalle accuse di “Violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti”, perché il fatto non costituisce reato. Nella medesima sentenza era stato assolto anche Marcello Dell’Utri per non aver commesso il fatto. Confermate le condanne agli esponenti mafiosi ancora in vita: Leoluca Bagarella e Antonio Cinà.
Il 27 aprile 2023 la suprema Corte di Cassazione ha definitivamente assolto Mario Mori e gli ufficiali del ROS Subranni e De Donno “per non aver commesso il fatto”, riformando così la sentenza di appello verso una più ampia formula assolutiva.
La sentenza del 27 aprile 2023 ha definitivamente prosciolto i Carabinieri da ogni accusa loro addebitata, ponendo la parola fine ad un teorema giudiziario rivelatosi, alla luce dei fatti, infondato.
ARTICOLO DEL 25 SETTEMBRE 2021
ONORE A MORI, SUBRANNI E DE DONNO ASSOLTI DALLA CORTE D’APPELLO
di Fabio Giuseppe Carlo Carisio
«Il mio pensiero va alle famiglie del generale Antonio Subranni, del generale Mario Mori e del capitano Giuseppe De Donno, a cui esprimo la mia grande vicinanza e con cui condivido il massimo disprezzo per quelli che hanno cercato di infangare l’onore di grandi combattenti della mafia. Io e i Carabinieri combattenti li onoriamo ora come allora e li portiamo nel cuore».
Con queste parole il colonnello dell’Arma Benemerita in congedo, Sergio Di Caprio, reso famoso dalle cronache e dalla tv con il soprannome di “Capitano Ultimo” quando arrestò il sanguinario latitante di Cosa Nostra Totò Riina, ha commentato l’assoluzione di Mori, ex comandante del Ros dei Carabinieri e poi direttore del Sisde, e degli altri ufficiali.
«Il fatto non costituisce reato». Per questo sono stati assolti il 23 settembre scorso dalla Corte d’Appello di Palermo dall’infamante accusa di minaccia a Corpo politico dello Stato in riferimento alla presunta Trattativa Stato-Mafia dopo la condanna subita in primo grado il 20 aprile 2018. La sentenza è stata emessa dopo tre giorni di Camera di consiglio. Mori, Subranni e De Donno erano stati condannati a 12 anni come il senatore Marcello Dell’Utri (assolto con differente motivazione perché “il fatto non sussiste”).
Come anche un cronista in braghette avrebbe compreso fin dall’inizio, l’attività degli investigatori della Benemerita si era quindi limitata alla gestione dei contatti con gli informatori e non esercitarono pressione su politici e ministri perché cedessero alle richieste mafiose. E’ questo il senso del nuovo pronunciamento giudiziario, in attesa delle motivazioni.
La tesi dell’esistenza della trattativa riguardava le stragi del 27 maggio 1993 in via dei Georgofili a Firenze (5 morti e quasi 50 feriti) e della notte tra 27 e 28 luglio in via Palestro a Milano (5 morti e 12 feriti) nonché con le bombe, sempre la stessa notte, a Roma alle chiese di san Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro (oltre 20 feriti in totale).
La conclusione dei giudici è che gli imputati ebbero contatti e colloqui con il sindaco di Palermo Vito Ciancimino, referente della mafia, ma solo per ottenere informazioni e portare avanti le loro indagini. E che quindi non fecero pressioni, come precedentemente ipotizzato dalla pubblica accusa, su Nicola Mancino (allora ministro dell’Interno), su Claudio Martelli (ministro di Grazia e Giustizia) e su Luciano Violante (presidente della commissione parlamentare antimafia), perché cedessero alla violenza.
L’inchiesta dei pm, convinti che i Carabinieri siano andati ben oltre i loro doveri, si arenò nel 2004 per mancanza di prove ma tornò in auge nel 2008 grazie al famoso papello di Riina, ovvero una serie di richieste avanzate da Cosa Nostra per far cessare gli attentati: tra cui revisione della sentenza del maxi-processo; annullamento del 41-bis dell’ordinamento penitenziario (il cosiddetto carcere duro); revisione della legge Rognoni-La Torre (reato di associazione mafiosa) ed altro.
Massimo Ciancimino, figlio del potente politico che fece fortuna grazie appalti miliardari a Palermo, disse ai pm palermitani di essere in possesso del famoso papello, che consegnò poi ai giudici. Ma proprio sull’autenticità di tale “biglietto” e sull’attendibilità del testimone si sono radicati i dubbi più grandi.
Nella relazione introduttiva nel processo d’Appello, nel giugno 2019, il presidente della Corte d’Appello Angelo Pellino, scrisse: «A far dubitare della autenticità del documento definito “papello”, consegnato da Massimo Ciancimino, sono le sicure modifiche apportate dallo stesso Ciancimino assieme alla persistente incertezza sul vero autore del documento. In definitiva le prove sull’autenticità finiscono per passare dalle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, caratterizzate da oscillazioni e incertezze. Anche lo stesso Salvatore Riina esclude di avere scritto alcunché».
Proprio per questo dall’Appello l’unica conferma è giunta per i 12 anni di condanna comminati in primo grado ad Antonino Cinà, il medico fedelissimo di Totò Riina che secondo l’accusa fu il messaggero fra la politica e Cosa nostra (consegnò il papello di Riina) nella prima parte della presunta trattativa nel 1992 e 1993. In quanto. si può desumere in assenza delle motivazioni, avrebbe cercato di gettare l’esca sulla Trattativa Stato-Mafia a cui i Carabinieri però non avrebbero abboccato.
Analoga la posizione dell’ex senatore di Forza Italia assolto. Bagarella tentò di far arrivare le minacce a Silvio Berlusconi ma Dell’Utri non veicolò quella minaccia.
LA MACCHINA DEL FANGO DOPO L’INFORMATIVA CARONTE
Capitano Ultimo, ideatore dell’unità Crimor che all’interno del Ros di Palermo portò avanti l’operazione Belva per catturare il boss di Corleone ricercato anche quale mandante degli attentati ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nell’estate del 1992, ha espresso «grande gioia» a Il Giornale nell’apprendere la notizia dell’assoluzione dei colleghi della Benemerita.
Un giubilo ben comprensibile visto che questo processo non era altro che lo strascico delle vicende giudiziarie innescate dall’altra pesantissima accusa di favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina, subito dopo il suo arresto del 15 gennaio 1993. Quell’accusa si rivelò infondata il 20 febbraio 2016, dopo lunghi anni di calvario giudiziario, quando il Tribunale di Palermo, presieduto da Raimondo Lo Forti, assolse il generale Mori, e il colonnello De Caprio.
“MAFIA-APPALTI-POTERI OCCULTI: FALCONE E BORSELLINO UCCISI PER L’INFORMATIVA CARONTE”
Nel frattempo però la macchina del fango si era messa in azione contro quegli stessi ufficiali dei Carabinieri che avevano avuto l’ardire di indirizzare le indagini ai “piani alti” del Deep State, ovvero sull’intreccio tra Mafia, Massoneria, Politica e Appalti pubblici emerso dalla segretissima Informativa Caronte che persino secondo l’ex procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso potrebbe essere all’origine degli attentati dinamitardi ai giudici Falcone e Borsellino, come abbiamo già evidenziato in una precedente inchiesta.
Questi riferimenti confermano quanto sostenuto dal pentito Tommaso Buscetta nelle sue ampie rivelazioni al giudice Falcone su Cosa Nostra quando fu invitato a parlare del “terzo livello” e rispose che non c’erano le condizioni politiche idonee per parlarne.
In merito vanno rammentati due fatti storici. Il magistrato Rocco Chinnici, prima vittima togata di un attentato esplosivo a Palermo, per primo evidenziò che la Mafia, come associazione e con tale denominazione «prima dell’unificazione d’Italia non era mai esistita in Sicilia». Abbiamo visto in una precedente inchiesta storica che furono infatti i Mille di Giuseppe Garibaldi finanziati dalla Massoneria britannica a stringere alleanza coi primi picciotti di famiglie malavitose.
In un altro reportage abbiamo invece visto come Cosa Nostra, drasticamente ridotta dalle operazioni di polizia del prefetto Cesare Mori inviato dal Duce, riconquistò potere grazie all’accordo strategico siglato tra Lucky Luciano e Vito Genovese con i servizi segreti americani (gli 007 dell’OSS, oggi CIA) per favorire lo Sbarco degli Alleati in Sicilia nel 1943. Da allora l’isola Trinacria finì di fatto nella morsa della potentissima occulta triade tra Intelligence, Massoneria e Mafia dalla quale non risulta essersi mai liberata. Senza queste premesse storiche è pressochè impossibile comprendere quanto accaduto dal 3 settembre 1982, giorno dell’assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, in poi.
In tale contesto non bisogna inoltre dimenticare che il papello di Ciancimino sulla “trattativa Stato-Mafia” apparve misteriosamente in un anno cruciale della politica italiana.
Ovvero dopo la caduta del governo di centrosinistra del nuovo Partito Democratico di Romano Prodi (che aveva fatto la riforma dei servizi segreti con la legge 124/2007 determinando il ruolo principale e centrale del Presidente del Consiglio dei Ministri, quale responsabile generale della politica, della sicurezza e dell’informazione) e una nuova vittoria del centrodestra (PDL creato da Forza Italia) nell’aprile 2008 con il ritorno del premier Silvio Berlusconi, storico amico, socio e compagno politico di Dell’Utri, condannato nel 2004 dal Tribunale di Palermo per associazione esterna di stampo mafioso a 9 anni di reclusioni (ridotti a 7 in Appello e in Cassazione nel 2014) quale presunto mediatore tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi.
Mentre le indagini sulla strage di via d’Amelio venivano ingarbugliate ed ostacolate in «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana (parole di una sentenza dei giudici)» attraverso le azioni misteriose di vari magistrati che la giustizia ha vagamente e tardivamente individuato senza trovarli colpevoli di alcunchè (dopo 28 anni), i Carabinieri veri eroi della lotta contro Cosa Nostra, per un foglietto di carta di dubbia autenticità, tornarono così nel tritacarne della giustizia e dei media di mainstream, compiacenti verso la Casta delle Toghe.
Se e quando Gospa News raggiungerà una diffusione tale da poter reclutare una falange di avvocati, riscriveremo la storia d’Italia facendo nomi e cognomi di quei magistrati e politici che rappresentano l’anello di congiunzione tra l’antica triade di 007, massoni e mafiosi, l’informativa Caronte insabbiata, le stragi depistate (dal delitto Moro in poi), e il recentissimo scandalo PalamaraGate terminato con un unico “capro espiatorio”, l’ex pm Luca Palamara radiato dalla magistratura, ed un brindisi a tarallucci e vino degli altri togati suoi interlocutori in chat scottanti per pilotare processi e nomine giudiziarie di rilievo.
IL DISPOSITIVO DELLA SENTENZA
Per ora restiamo all’esito del recente processo. “In parziale riforma della sentenza emessa dalla Corte di assise di Palermo in data 20 aprile 2018 assolve De Donno Giuseppe, Mori Mario e Subranni Antonio dalla residua imputazione a loro ascritta per il reato di cui al capo A, perché il fatto non costituisce reato”. Inizia così il dispositivo della sentenza del processo di Appello sulla trattativa Stato-mafia.
“Dichiara – si legge ancora – non doversi procedere nei riguardi di Bagarella Leoluca Biagio, per il reato di cui al capo A, limitatamente alle condotte commesse in pregiudizio del governo presieduto da Silvio Berlusconi, previa riqualificazione del fatto… come tentata minaccia pluriaggravata a corpo politico dello stato, per essere il reato cosi’ riqualificato estinto per intervenuta prescrizione. E per l’effetto ridetermina la pena nei riguardi di Bagarella in anni 27 di reclusione”.
INCIUCIO MONDIALISTA DI MATTARELLA, PD, RENZI & BERLUSCONI PER DRAGHI. Come previsto da Gospa News
“Assolve Dell’Utri Marcello dalla residua imputazione per il reato di cui al capo A, come sopra riqualificato, per non avere commesso il fatto e dichiara cessata l’efficacia della misura cautelare del divieto di espatrio già applicata nei suoi riguardi”.
La Corte ha revocato le statuizioni civili nei riguardi degli imputati De Donno, Mori, Subranni e Dell’Utri e rideterminato in 5 milioni di euro l’importo complessivo del risarcimento dovuto alla Presidenza del Consiglio dei ministri.
La Corte d’assise “conferma nel resto l’impugnata sentenza anche nei confronti di Giovanni Brusca e condanna gli imputati Bagarella e Cinà alla rifusione delle ulteriori spese processuali in favore delle parti civili (Presidenza del Consiglio dei ministri, presidenza della Regione siciliana, Comune di Palermo, associazione tra familiari contro le mafie, centro Pio La Torre”. La Corte ha fissato in 90 giorni il termine per il deposito delle motivazioni.
TRATTATIVA STATO-MAFIA: “UN FALSO STORICO”
“Esprimo solo la mia soddisfazione, non voglio aggiungere altro”. Raggiunto dall’Adnkronos, l’ex generale del Ros Mario Mori, assolto nel processo d’appello sulla presunta trattativa Stato-Mafia, non nasconde la sua emozione ed esprime la sua soddisfazione per il verdetto.
«Se il 20 aprile 2018 la sentenza di primo grado nell’aula bunker dell’Ucciardone aveva dato ragione alla ricostruzione della procura di Palermo, dei pm antimafia che non hanno mai arretrato un millimetro sull’impianto accusatorio, il dispositivo letto nel bunker del Pagliarelli, ha rovesciato il film di tragica storia d’Italia, dal 1992 al 1994» ha scritto perentoriamente il quotidiano Il Tempo.
«Dopo 76 ore di camera di consiglio, la corte d’assise d’Appello di Palermo presieduta da Angelo Pellino, giudice a latere Vittorio Anania, ha emesso una storica sentenza su quello che i giudici di primo grado hanno definito “un patto scellerato” fra alcuni pezzi dello Stato e la mafia di Totò Riina e Bernardo Provenzano durante la stagione delle stragi del 1992 e 1993» aggiunge il giornale. Ma ora sono arrivate le assoluzioni.
«L’accusa, rappresentata dai sostituti procuratori generali Sergio Barbiera e Giuseppe Fici, alla fine della requisitoria aveva chiesto il rigetto dei ricorsi e la conferma delle condanne di primo grado. Ma a riscrivere la storia processuale della stagione delle stragi e della trattativa – a questo punto più che mai presunta – fra pezzi dello Stato e i corleonesi di Totò Riina sono le due formule con cui vengono assolti Dell’Utri “per non aver commesso il fatto” e gli ex ufficiali del Ros “perché il fatto non costituisce reato”» prosegue il Tempo.
Il primo, considerato anello di congiunzione fra politica e mafia nel 1994 con il governo Berlusconi, non ha compiuto il fatto, dunque non ha minacciato il corpo politico dello Stato. “La sentenza dice che non fu trait d’union tra mafia e politica”, commenta il suo legale a fine udienza. “E’ stato tutto inventato, nove anni di sofferenza per un film, per giunta girato male”, commenta l’ex senatore. Una ‘non minaccia’ confermata anche dalla riqualificazione del reato di Bagarella da minaccia a tentata minaccia fino al 1993 e non per i fatti del 1994.
I secondi, gli ufficiali del Ros, per la corte d’Assise d’Appello non avrebbero compiuto alcun reato in quella che viene ribattezzata la prima parte della presunta trattativa, quella che sarebbe scattata dopo la bomba di Capaci. Se i contatti fra il Ros e i mafiosi ci sono stati, non hanno costituito reato ma hanno fatto parte del sistema investigativo.
“Ho sentito sia il generale Mori che De Donno e sono molto contenuto – commenta l’avvocato Basilio Milio, legale del generale Mario Mori – La sentenza che la Trattativa non esiste. E’ una bufala, un falso storico”.
PERSECUZIONI GIUDIZIARIE AL GENERALE MORI
Analoghe accuse infondate giunsero per Mori dall’imputazione per favoreggiamento nei confronti di Cosa Nostra in riferimento alla mancata perquisizione del covo di Riina nel 1993. Persino gli stessi pm chiesero il proscioglimento per il generale ed il colonnello Di Caprio ma il Gip nel 2005 non lo accolse costringendoli a presentarsi davanti al Tribunale di Palermo che li assolse il 20 febbraio 2006.
Secondo i pubblici ministeri mancava, infatti, l’elemento psicologico del reato. In pratica, a loro giudizio, l’allora capo del Ros e il capitano ‘Ultimo’, nel non perquisire il covo non pensavano affatto di favorire Cosa nostra.
Come ricorda Repubblica, la lussuosa villa di via Bernini, a Palermo – in cui Riina abitava in clandestinità con la famiglia – fu perquisita dai carabinieri solo molti giorni dopo l’arresto del capomafia corleonese: nel frattempo era stata svuotata e ripulita dai mafiosi, che avevano anche smontato la cassaforte e imbiancato le pareti per cancellare ogni traccia.
Nei concitati momenti seguiti alla cattura del boss, era stato deciso di non procedere alla perquisizione mentre i carabinieri avrebbero assicurato “servizi di osservazione” dell’immobile per raccogliere così elementi utili a ulteriori indagini sulla latitanza di Riina. Ma questi servizi di fatto vennero presto sospesi e alla Procura ne venne data comunicazione solo diversi giorni più tardi. Da qui nacquero i sospetti di favoreggiamento poi rivelatisi infondati.
Ma non è stata questa l’unica disavventura del perseguitato generale Mori. Il 19 maggio 2016, insieme all’altro ufficiale deil Ros dei Carabinieri Mauro Obinu, aveva ottenuto un’assoluzione piena perché «il fatto non costituisce reato» dalla Corte d’Appello di Palermo in relazione all’accusa di favoreggiamento del boss Bernardo Provenzano per un presunto mancato blitz che secondo un informatore avrebbe potuto portare alla sua cattura nel 1995.
Come ricostruito dal quotidiano Il Mattino, la pubblica accusa aveva cercato «far entrare nel dibattimento elementi che potevano provare i rapporti oscuri di Mori con ambienti dei Servizi deviati e della destra, ipotizzando che l’ex capo del Ros si fosse mosso obbedendo a input extraistituzionali che avevano interesse all’impunità di Provenzano, ritenuto esponente dell’ala “moderata” di Cosa nostra in contrapposizione agli stragisti di Riina».
Documentazione non ammessa al processo, invece, dalla Corte che «non solo non solo non ha creduto alla colpevolezza dei due ex ufficiali del Ros, ma ha anche decisamente bocciato il tentativo della procura generale di costruire attorno alla mancata cattura di Provenzano uno scenario più complesso» scrisse Il Mattino.
«Spero sia la fine di un accanimento giudiziario che dura da anni», aveva commentato allora il legale di Mori e Obinu, l’avvocato Basilio Milio riferendosi al processo per la mancata perquisizione del covo di Riina, da cui Mori fu assolto, e a quello sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia in cui il generale era stato condannato ma è stato nuovamente assolto.
Sarà poi la Corte di Cassazione, se la procura generale farà ricorso, a decidere se confermare le assoluzioni o se riaprire a livello giudiziario l’intera vicenda.
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Fabio Giuseppe Carlo Carisio
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MAIN SOURCES
GOSPA NEWS – DOSSIER GIUSTIZIA – MAFIA
GOSPA NEWS – INCHIESTE COSPIRAZIONI – MASSONERIA
GOSPA NEWS – REPORTAGES PALAMARAGATE
IL GIORNALE – LO SFOGO DEL CAPITANO ULTIMO
IL POST – I RETROSCENA DEL PROCESSO PER LA TRATTATIVA STATO-MAFIA
ADNKRONOS – ASSOLTI MORI, DE DONNO E SUBRANNI
IL TEMPO – ASSOLTI CARABINIERI E DELL’UTRI
REPUBBLICA – ASSOLUZIONI PER IL CASO DEL COVO DI RIINA
IL MATTINO – MORI ASSOLTO PER LA VICENDA PROVENZANO