«Quel giorno al posto di Romero dovevo esserci io sull’altare. Il killer non conosceva di persona Romero e aveva l’incarico di sparare al celebrante. Se ci ripenso, tremo ancora. Ma è come se lui mi avesse associato al suo martirio. Lo considero un monito della Grazia a vivere come ha vissuto Romero».
Jesús Delgado è un sopravvissuto. Vicario generale dell’arcidiocesi di San Salvador, 77 anni, è stato il segretario personale del beato Óscar Romero, l’arcivescovo salvadoregno ucciso da un sicario il 24 marzo 1980 mentre celebrava Messa nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza dopo essersi opposto alla violenza del regime militare e schierato a fianco dei poveri.
Lo ha raccontato il 14 ottobre 2015 il giornalista Antonio Sanfrancesco in una superlativa intervista che, una volta per tutte, sgomberò il campo dalle polemiche sui contrasti tra il vescovo del pueblo, accusato dal regime e da una parte delle autorità ecclesiastiche sudamericane di essere comunista, ed il Papa Giovanni Paolo II, che lo avvertì proprio sulle insidie dell’ideologia marxista.
Contrariamente a quanto riferito da altri seminatori di discordia del Vaticano e dello stesso settimanale cattolico in un altro articolo, tra i due ci fu una tensione iniziale superata con una rappacificazione tanto che persino un noto quotidiano di sinistra come Repubblica sentenziò che “Non fu Wojtyla a osteggiarlo”.
Ci piace cominciare da questo racconto per celebrare la Giornata dei Martiri Cristiani che sarò impreziosita da un dovizioso speciale dell’Agenzia Fides delle Opere Missionarie Pontificie sul massacro di catechisti nel mondo, figure raramente celebrate con la stessa enfasi dei consacrati uccisi ma anche loro in molti casi beatificati per il loro eroico sacrificio in nome di Gesù Cristo Morto e Risorto.
I NEMICI DI OSCAR ROMERO TRA I VESCOVI
«Di nemici Oscar Romero, il vescovo salvadoregno ucciso il 24 marzo del 1980 mentre celebrava messa su un altare nella cappella di un ospizio per anziani a San Salvador, ne aveva tanti. Molti fra i suoi confratelli vescovi. Molti in Vaticano, fra prelati ossessionati dal suo presunto filo marxismo e invidiosi dei suoi successi di popolo. Ma ciò che non si è mai detto fino in fondo è che fra questi non si possono in nessun modo annoverare i due Papi che, da lontano, lo seguirono nella sua difficile epopea: Paolo VI e Giovanni Paolo II. È quanto si evince dai documenti, fino a oggi inediti, contenuti nella causa di beatificazione che ora, grazie a Francesco, è stata definitivamente sbloccata. Un materiale prezioso di cui si è avvalso Roberto Morozzo della Rocca in “Oscar Romero. La biografia”, edita da San Paolo» scrisse con varie citazioni di aneddoti, Paolo Rodari su Repubblica il giorno prima della beatificazione di Romero proclamata da Papa Francesco il 23 maggio 2015,
Proprio Wojtyla nel marzo del 1983 quando visita El Salvador in piena guerra civile pregò sulla tomba del vescovo malgrado il divieto del governo per “motivi di ordine pubblico”.“Dentro queste mura – spiegherà il papa – riposano i resti mortali di monsignor Romero, zelante pastore che l’amore di Dio e il servizio ai fratelli portarono fino al sacrificio della vita in forma violenta, mentre celebrava il Sacrificio del perdono e della riconciliazione”.
Monsignor Delgado, nel 2015 venne in Italia per presentare il volume La chiesa non può stare zitta – Scritti inediti 1977-1980 (Editrice Missionaria Italiana, 13 €, prefazione di Vincenzo Paglia) nel quale ha raccolto le lettere pastorali di Romero.
«Era un lunedì. Romero il giorno prima aveva pronunciato un’omelia molto dura contro il regime militare. Per evitargli stress ulteriore e le domande dei giornalisti lo consigliai di prendersi una giornata libera e che io avrei preso tutti i suoi appuntamenti» racconta l’amico e segretario del vescovo indugiando sul cambio di programma che gli salvò la vita. «Aggiunse: “Vada alla cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza e inizi a celebrare la Messa, la raggiungo e celebriamo insieme”. Stava per andare via e tornò indietro: “Meglio di no, non voglio impegnarla in questo, la Messa stasera la celebro io”».
GIOVANNI PAOLO II: L’ULTIMA GRAZIA AL PAPA DEL ROSARIO LUMINOSO
Lì il vescovo di San Salvador fu ucciso da un sicario di mandanti politici e malavitosi dopo che «purtroppo il clima attorno a lui era diventato molto pesante». Anche per le tensioni interne alla Chiesa stessa sul suo esuberante carattere ben tratteggiato dal suo vicario Delgado fin dal. primo incontro, nel 1978, tra Romero e Giovanni Paolo II.
IL MONITO SGRADITO DI WOJTYLA: “ATTENTO AL COMUNISMO”
«Wojtyla era stato eletto da poco. Al termine dell’udienza generale in piazza San Pietro, Romero si presentò al Papa dicendo di essere arcivescovo di San Salvador e il Papa con il dito alzato gli disse: “Fai attenzione con il comunismo!”. Romero subito si agitò e poi rispose subito: “Sì Santo Padre, capisco la sua preoccupazione ma devo dirle che il comunismo in Salvador non è lo stesso che in Polonia. Nel mio Paese accusano di essere comunista anche chi parla della Dottrina Sociale della Chiesa”. E Wojtyla aggrottò le ciglia, evidentemente insoddisfatto della risposta. Romero dopo quell’incontro ebbe un’impressione negativa: “Sento che con questo Papa non m’intenderò molto”, mi disse, “è molto diverso da Paolo VI”. Io gli dissi: “Piano monsignore, è appena diventato Papa, non conosce bene l’America Latina. Dobbiamo pregare per lui”».
«Cinque mesi più tardi dovevamo venire in Francia. Io gli dissi di andare anche a Roma perché non si può andare in Europa senza passare da Roma. E Romero disse: “Questa volta non ci vado, non m’intendo con questo Papa”. Vorrà dire, gli dissi, che nella sua biografia scriverò un capitolo sul rifiuto di andare a Roma e incontrare il Pontefice. Un’ora dopo mi disse di cambiare il biglietto» ricorda sorridendo il testimone di quel successivo incontro che avvicinò il Papa, anch’egli ben conscio delle persecuzioni dei regimi di destra per aver vissuto l’occupazione Nazista della Polonia prima di quella Comunista.
«Il Pontefice lo incoraggiò e gli disse di andare avanti e che avrebbe pregato per lui che era il vicario di Cristo per il popolo di San Salvador. Una sintonia suggellata quando Giovanni Paolo II nel gennaio 1979 arrivò a Puebla, in Messico, per inaugurare la riunione dell’episcopato latinoamericano».
Ciò non fu sufficiente a sopire le ostilità di alcuni cardinali che perduravano da anni. Nonostante fosse un «pastore buono, pieno di amore di Dio e vicino ai suoi fratelli che, vivendo il dinamismo delle beatitudini, giunse fino al dono della sua stessa vita, in modo violento, mentre celebrava l’Eucaristia, Sacrificio dell’amore supremo, suggellando con il suo stesso sangue il Vangelo che annunciava» come lo descrisse Papa Francesco.
LA PERSECUZIONE POST MORTEM
«Romero subì un ostracismo ecclesiale notevole, che molto lo fece soffrire. Il 14 dicembre del 1978 si presentò improvvisamente a San Salvador, senza che Romero fosse nemmeno avvisato, il vescovo argentino Antonio Quarracino inviato come visitatore apostolico dalla Congregazione per i Vescovi, cioè dal cardinale Sebastiano Baggio. Influenzato da parte dell’episcopato salvadorgeno che invidiava il successo di popolo di Romero, Baggio voleva di fatto destituirlo. Romero subì in silenzio. Ma dopo che Giovanni Paolo II incontrò Romero a Roma, di colpo l’ostilità di Baggio mutò. Il giorno dopo l’udienza Romero passò dal prefetto dei vescovi che, scrive Morozzo della Rocca, lo attendeva “con cordialità”. Improvvisamente aveva smarrito quella severità che gli aveva dimostrato in occasioni precedenti» riferì Repubblica sulla base del libro di aneddoti.
«Già con Paolo VI la tela dei detrattori di Romero lavorava alacremente sull’asse San Salvador-Roma. Tre vescovi suffraganei dell’arcidiocesi, Alvarez di San Miguel, Aparicio di San Vincente e Barrera di Santa Ana, assieme al nuovo vescovo ausiliare René Revelo, promosso in quel posto da un ingenuo Romero, pompavano nelle orecchie dei prelati di Roma maldicenze a non finire. Paolo VI fece da parafulmine. “Coraggio, è lei che comanda”, gli disse Montini nell’aprile del 1977. A conti fatti, l’amicizia con Paolo VI “aveva protetto Romero. Baggio nutriva forti dubbi sul suo operato, per il diluvio di informazioni negative che pervenivano a Roma a cominciare dal nunzio Gerada, ma il rapporto con il Papa funse da ombrello per Romero”, almeno fino alla morte del Papa, il 6 agosto 1978» aggiunge il giornalista Rodari.
Ma Papa Francesco I che lo proclamò beato, nel suo discorso al Pellegrinaggio da El Salvador del 30 Ottobre 2015 precisò un fatto inquietante.
«Il martirio di monsignor Romero non avvenne solo al momento della sua morte; fu un martirio-testimonianza, sofferenza anteriore, persecuzione anteriore, fino alla sua morte. Ma anche posteriore, perché una volta morto — io ero un giovane sacerdote e ne sono stato testimone — fu diffamato, calunniato, infangato, ossia il suo martirio continuò persino da parte dei suoi fratelli nel sacerdozio e nell’episcopato. Non parlo per sentito dire, ho ascoltato queste cose. Cioè, è bello vederlo anche così: come un uomo che continua a essere martire. Ebbene, credo che ora quasi nessuno osi più farlo. Dopo aver dato la sua vita, continuò a darla lasciandosi colpire da tutte quelle incomprensioni e calunnie. Questo mi dà forza, solo Dio lo sa. Solo Dio conosce le storie delle persone, e quante volte persone che hanno già dato la loro vita o che sono morte continuano a essere lapidate con la pietra più dura che esiste al mondo: la lingua».
LA BEATIFICAZIONE VOLUTA DA RATZINGER E BERGOGLIO
Queste maldicenze ritardarono la beatificazione sebbene fosse inevitabile visto il tragico martirio che è condizione peculiare per ottenere l’onore degli altari. «Un ruolo determinante in questo ritardo lo ha giocato il cardinale Alfonso Lopez Trujllo (colombiano, morto nel 2008, ndr) che non amava per nulla Romero e non so perché. Era incaricato del Papa per l’America Latina e aveva molto potere. Si era opposto alla nomina ad arcivescovo di Romero ed era molto critico nei confronti del suo stile pastorale» perciò Delgado.
«Dopo che furono analizzati tutti i discorsi di Romero e non si trovò nulla in contrario, Trujllo fece di tutto per ritardarne la causa. La documentazione non arrivava mai alla Congregazione per le Cause dei Santi che doveva esaminarla. Il momento più delicato fu quando Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, dopo aver esaminato per sette anni tutte le omelie e di discorsi di Romero disse che dal punto di vista teologico erano ortodosse e perfettamente in linea con l’insegnamento della Chiesa. Lopez Trujllo si oppose ancora una volta e disse che i documenti andavano ulteriormente esaminati dal punto di vista della Dottrina sociale della Chiesa perché, a suo dire, Romero aveva fatto molti pasticci».
«Quest’analisi durò altri sette anni. Alla fine, quando non si trovò nulla in contrario neanche su questo, Ratzinger disse di firmare tutti i documenti e inviare le carte alle Cause dei Santi ma Lopez Trujllo si oppose e disse di aspettare. Intanto Ratzinger nel 2005 venne eletto Papa. Una settimana prima delle dimissioni scrisse di suo pugno una lettera alla Congregazione per la Dottrina della Fede per chiedere di restituire tutti i documenti riguardanti la causa di Romero quam primum, il prima possibile, alle Cause dei Santi».
Ma dopo l’insediamento di Jorge Mario Bergoglio al soglio Pontificio quella missiva di Ratzinger fu sufficiente per sbloccare il processo di canonizzazione in una perfetta sinergia tra ben quattro pontefici che conobbero e stimarono il coraggioso vescovo sudamericano con una predestinazione al martirio.
LA PREDESTINAZIONE AL MARTIRIO E LA CONVERSIONE DEI RICCHI
Romero era «anzitutto un uomo di Chiesa, che per lui era tutto: la sua casa, il suo cielo, il suo sogno e la sua sicurezza per la salvezza dell’anima. Era un cristiano che ha a cuore la salvezza dell’anima del prossimo educato, in questo, dai Gesuiti. Ma Romero prete era assai tradizionalista e molto diverso dal Romero vescovo. Se prima guardava più in alto, a Dio, dopo guardò anche in basso, all’uomo. Fu un cambio radicale, una conversione. In questo libro paragono, per contrasto, l’arcivescovo Romero al sacerdote della parabola del buon Samaritano che vede la sofferenza e passa oltre. Romero no, non restò indifferente al grido di sofferenza del suo popolo. E agì».
La sua conversione avvenne con «la morte di padre Rutilio Grande (gesuita, assassinato assieme a due catecumeni appena un mese dopo il suo ingresso in diocesi, ndr) che era un suo grande amico. Grande si era identificato con i contadini, con i poveri. E questo gli valse molte incomprensioni davanti alla Compagnia di Gesù della provincia centroamericana. I Gesuiti, infatti, non praticavano nessuna pastorale nei confronti di queste persone, per loro era più importante lavorare per educare i figli delle grandi famiglie ricche che lavorare con i contadini che non hanno nessun potere. Padre Rutilio Grande ruppe con questo schema, diceva che Gesù si è fatto campesino, non professore d’università: povero con il povero. Quando morì, Romero disse che era arrivato il tempo della staffetta e che avrebbe preso il posto dell’amico in difesa dei poveri».
Ma qual è stato il miracolo più grande compiuto da Romero? «La conversione lenta dei ricchi che si opposero a lui. Lo scorso maggio durante la cerimonia di beatificazione in cielo è spuntato un segno con al centro la figura di Romero. I ricchi credono più a questi segni del cielo che a ogni altra cosa. Così hanno cominciato a convertirsi».
Carlo Domenico Cristofori
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MAIN SOURCES
GOSPA NEWS – CRISTIANI PERSEGUITATI
REPUBBLICA – Romero beato: “Non fu Wojtyla a osteggiarlo”
FAMIGLIA CRISTIANA – «QUANDO PAPA WOJTYLA DISSE A ROMERO: “ATTENTO AI COMUNISTI”. POI CAPÌ»
Speciale Fides/Catechisti Martiri
Storie che meritano di essere conosciute
a cura di Agenzia Fides – Opere Missionarie Pontificie
Da tre decenni il 24 marzo, giorno dell’assassinio di Monsignor Oscar Arnulfo Romero, Arcivescovo di San Salvador, canonizzato il 14 ottobre 2018, le Pontificie Opere Missionarie italiane propongono una “Giornata dei Missionari martiri”, da vivere in loro memoria nel segno della preghiera, della riflessione, del digiuno e delle opere di carità.
Quasi un anno fa, il 10 maggio 2021, Papa Francesco ha pubblicato la Lettera Apostolica “Antiquum ministerium” con la quale si istituisce il ministero di catechista, riconoscendone ufficialmente il ruolo fondamentale per l’evangelizzazione, soprattutto nelle terre e tra i popoli di prima evangelizzazione. “I catechisti nelle terre di missione svolgono una preziosa e insostituibile opera apostolica, per la quale tutta la Chiesa è loro grata” (Papa Francesco, 21 maggio 2014).
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Le due circostanze, unite all’attenzione che l’Agenzia Fides riserva da sempre ai missionari uccisi, ispirano questo Speciale dedicato ad alcune figure di “Catechisti Martiri”. Non sono pochi infatti i catechisti che, in tutti i continenti, sono rimasti fedeli al mandato ricevuto di annunciare Cristo ed il suo Vangelo fino al sacrificio supremo della. Uomini, donne e persino ragazzi, animati dallo Spirito, il “motore” della missione, sono stati autentici “testimoni di sangue” di Cristo. Come scrive Papa Francesco “La lunga schiera di beati, santi e martiri catechisti, che ha segnato la missione della Chiesa, merita di essere conosciuta perché costituisce una feconda sorgente non solo per la catechesi, ma per l’intera storia della spiritualità cristiana” (Antiquum Ministerium, 3). Ricordarli quindi non significa guardare al passato, in quanto la loro testimonianza evangelizza ancora oggi ed è fonte di vita per i nuovi cristiani.
Per alcuni di loro è in corso la Causa di Beatificazione e Canonizzazione, come per la mamma catechista Luisa Mafo e i 23 catechisti che con lei furono uccisi a Guiúa, in Mozambico, il 22 marzo 1992, durante la guerra fratricida che insanguinava il paese, mentre erano riuniti con le loro famiglie per un corso di formazione. Anche per il catechista indigeno Simão Bororo, martire con don Rodolfo Lunkenbein nella missione salesiana di Meruri, in Mato Grosso, è stata conclusa l’inchiesta diocesana. La loro morte, il 15 luglio 1976, si inserisce nel clima infuocato per la demarcazione della terra e la difesa dei diritti degli indios.
Diversi sono poi i catechisti martiri che la Chiesa ha ufficialmente iscritto tra i Beati. Alcuni sono i primi Beati della loro nazione, un riconoscimento della loro fede e della loro opera per la causa del Vangelo: il catechista Isidoro Ngei Ko Lat, primo beato del Myanmar; il catechista Peter To Rot, primo beato della Papua Nuova Guinea; il catechista Paolo Thoj Xyooj, nel gruppo dei primi martiri del Laos.
Molto spesso hanno trovato la morte insieme ai missionari con cui svolgevano il lavoro di evangelizzazione, uniti nella vita come nella suprema testimonianza della fede che annunciavano: padre Mario Vergara e il catechista Isidoro Ngei Ko Lat in Myanmar; in Guatemala i martiri della diocesi di Quiché e anche padre Tullio Maruzzo insieme al catechista Luis Obdulio Arroyo; padre Mario Borzaga e il catechista Paolo Thoj Xyooj in Laos.
Nei luoghi dove non è possibile una presenza stabile dei sacerdoti, i catechisti continuano ad evangelizzare, preparare ai sacramenti, guidare la preghiera, aiutare quanti hanno bisogno, determinati fino a pagare con la vita la loro professione di fede: così i giovani catechisti ugandesi Davide Okelo e Gildo Irwa; il maestro di scuola e di fede Ramose Lucien Botovasoa, in Madagascar; Peter To Rot, padre di famiglia affettuoso e catechista integerrimo in Papua Nuova Guinea.
I Vescovi del Guatemala hanno scritto in occasione della Beatificazione dei martiri di Quiché: “Benedetto è il sangue versato da questi nostri fratelli, perché loro, con la loro testimonianza, ci hanno mostrato cosa significa amare Gesù Cristo… Beati i martiri di un popolo indigeno benedetto dalla fede in Gesù Cristo, perché ci hanno mostrato fino a che punto può arrivare la dedizione di un catechista o di un missionario”.
Infine riportiamo l’elenco dei Catechisti uccisi negli ultimi anni, secondo le informazioni raccolte dall’Agenzia Fides. Per costoro non usiamo il termine “martiri”, se non nel suo significato etimologico di “testimoni”, per non entrare in merito al giudizio che la Chiesa potrà eventualmente dare su alcuni di loro. A questi elenchi provvisori deve sempre essere aggiunta la lunga lista dei tanti, di cui forse non si avrà mai notizia o di cui non si conoscerà neppure il nome, che in ogni angolo del pianeta soffrono e pagano con la vita la loro fede in Gesù Cristo. Questa schiera, che non è di morte ma di vita per la Chiesa intera, richiama il libro dell’Apocalisse, al capitolo 7, dove davanti al Trono e all’Agnello c’era “una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua… Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello”.
“L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri” affermava il Santo Padre Paolo VI nella Evangelii Nuntiandi, con una espressione ampiamente nota, ripresa anche da Papa Francesco: “il mondo di oggi ha tanto bisogno di testimoni. Non tanto di maestri, ma di testimoni. Non parlare tanto, ma parlare con tutta la vita” (18 maggio 2011). E’ ciò che hanno fatto questi catechisti, la loro storia quindi merita di essere conosciuta.
MOZAMBICO – Luisa Mafo, mamma catechista, e i 23 catechisti martiri di Guiúa
Roma (Agenzia Fides) – A partire dal 1975, anno dell’indipendenza, al 1992, quando furono firmati gli accordi di pace, il Mozambico è stato insanguinato dalla brutalità di una guerra fratricida che vide affrontarsi due fazioni, la Frelimo di ispirazione marxista-leninista, e la Renamo di stampo conservatore. Tra le tante violenze di quel tragico periodo, assume rilievo il martirio di un gruppo di catechisti con le loro famiglie.
Poco prima della mezzanotte del 21 marzo 1992, i guerriglieri della Renamo circondarono il Centro catechistico di Guiúa, nei pressi di Inhambane, città e diocesi del Mozambico meridionale, capoluogo della provincia omonima, con l’obiettivo di saccheggiarlo e avere notizie del fronte nemico. Tra loro c’erano anche ragazzini di 10-15 anni con le armi in pugno. Nel Centro erano ospitate alcune famiglie, con bimbi piccoli, provenienti da diverse missioni, che soggiornavano in alcune casette messe a loro disposizione per questo periodo. I grandi erano catechisti, o si preparavano a questo ministero. Erano lì infatti per partecipare a un corso di formazione organizzato dai Missionari della Consolata.
Nella notte, per tutta l’area del Centro, riecheggiarono gli spari e i colpi alle porte e alle finestre delle residenze dei catechisti, con i guerriglieri che gridavano: “Apri! Esci!”. Furono subito uccisi due catechisti: Faustino Cuamba e Carlos Mukwanane, mentre tentavano la fuga attraverso i campi. Gli assalitori allora si divisero in tre gruppi: uno si diresse, con tutti gli ostaggi, verso la residenza delle suore, senza però riuscire ad entrarvi in quanto la porta era stata rinforzata. In quei momenti, i soldati dell’esercito regolare spararono due colpi di mortaio dalla loro postazione poco lontano dal Centro. Il secondo gruppo rimase nei pressi delle abitazioni dei catechisti, mentre il terzo andò alla ricerca dei soldati che avevano sparato, nell’intento di procurarsi armi e munizioni, ma alla fine tornarono sui loro passi.
Terminato il saccheggio, i gruppi si riunirono nel recinto della scuola primaria. Raggrupparono tutte le persone prese prigioniere, percorsero con loro 500 metri e si fermarono vicino ad una capanna, dove cominciarono a torturarle. Prima interrogarono le donne, poi gli uomini. Volevano sapere il luogo di provenienza, la professione, perché erano al Centro. Chiedevano anche informazioni sulla dislocazione dell’esercito regolare e sulla strada non minata per penetrare nell’area protetta.
Vedendo che albeggiava, e innervositi per la mancanza di collaborazione da parte dei rapiti, gli aggressori decisero di inoltrarsi nel bosco. Approfittando del trambusto e dell’oscurità, due catechisti si nascosero in mezzo ai cespugli e riuscirono a fuggire. Inoltratisi nel bosco, i banditi uccisero un adolescente, per spaventare gli altri prigionieri.
Allontanatisi alcuni chilometri da Guiúa, scelsero 10 ragazzi, giovani e adolescenti, che avrebbero dovuto seguire i guerriglieri nelle loro basi, e li separarono dagli adulti e dai bambini, verso i quali furono di una crudeltà bestiale. Ogni guerrigliero uccise a sangue freddo la persona che aveva in custodia. Davanti alle prime morti, alcuni catechisti dissero: “Preghiamo! Ora sappiamo quale è l’intento di questi uomini e quale sarà la fine del nostro popolo. Preghiamo! È arrivato il nostro giorno”.
La mattina del 22 marzo 1992, domenica, i missionari, le suore e alcuni cristiani partirono dal Centro e andarono a recuperare i cadaveri nella brughiera, 23 persone di cui 6 bambini, tutti uccisi a colpi di baionetta. Il giorno seguente, 23 marzo, era prevista l’apertura solenne dell’anno di formazione dei catechisti; invece, il Vescovo dovette celebrare il funerale delle vittime dell’odio e della violenza.
Monsignor Diamantino Antunes, IMC, Vescovo di Tete (Mozambico) e primo postulatore della Causa di beatificazione dei Catechisti Martiri di Guiúa, ripercorre le vicende di quell’epoca. “I Missionari della Consolata (IMC) avevano costruito a Guiúa, nella diocesi di Inhambane, un Centro catechistico per la formazione dei laici, che era stato chiuso durante la guerra civile, dopo l’uccisione, nel 1987, del catechista Peres Manuel, che oggi è incluso nella lista dei martiri del 1992. Alla fine del 1991 sembrava che la guerra fosse ormai prossima alla conclusione e furono gli stessi catechisti a chiedere la riapertura del Centro di Guiúa durante l’assemblea diocesana di pastorale. Il Vescovo non era favorevole, ma aveva comunque dato il suo parere positivo se ci fossero state delle famiglie disposte a cominciare. Alla fine, 13 famiglie si erano offerte. Quando queste vennero massacrate, il 22 marzo 1992, erano da poco arrivate nella missione. È evidente che si trattò di un massacro premeditato ed eseguito con l’intenzione di scardinare gli sforzi che la Chiesa faceva per riportare alla normalità un paese che aveva pagato un caro prezzo come conseguenza della guerra. Gli autori di questa strage sapevano bene chi fossero le persone che stavano uccidendo e perché le stavano uccidendo. L’odio alla fede, una delle condizioni per stabilire il martirio, era più che evidente”.
Pochi anni dopo il massacro, padre Francisco Lerma, IMC (nominato, in seguito, Vescovo di Gurué e morto a Maputo il 24 aprile 2019), fu il primo a raccogliere le testimonianze relative a questo martirio e alla vita dei catechisti martiri. Nel 2017, la diocesi di Inhambane ha dato inizio al processo per la beatificazione e canonizzazione dei martiri di Guiúa. La commissione di inchiesta ha interrogato 135 persone. Il 22 marzo 2019 si è conclusa la fase diocesana del processo e tutta la documentazione raccolta (circa di 4.000 pagine) è stata mandata alla Congregazione per le Cause dei Santi. Attualmente si sta redigendo la “Positio”, il documento con cui si sostiene che la morte di queste persone risponde alle condizioni del martirio.
Monsignor Antunes ritiene che “questa causa di canonizzazione abbia un profondo significato anche per la vita della Chiesa in Africa oggi, che molto deve al ministero del catechista”. “Infatti, il lavoro che svolgono i catechisti nelle Chiese locali è molto importante a tutti i livelli, in modo particolare nella Chiesa africana. Anche oggi i sacerdoti sono in numero insufficiente per la crescita della Chiesa, che è dovuta soprattutto ai nostri catechisti, primi evangelizzatori. Sono loro che trasmettono la fede nelle loro comunità, nei loro villaggi, e formano anche altri catechisti. Di qui l’importanza dei centri di formazione: per me la Chiesa senza i catechisti manca di qualcosa di essenziale, non può andare avanti.”
La causa di canonizzazione dei martiri di Guiúa è intitolata a Luisa Mafo, una mamma catechista che il 22 marzo 1992 venne uccisa insieme al figlio e al nipote. Dal suo matrimonio con Adolfo Raul erano nati 10 figli. Luisa era una donna umile, molto semplice, una madre educatrice alle buone abitudini, alla fede cristiana e allo zelo apostolico. Insieme al marito nel 1977 frequentò il primo corso di formazione presso il Centro Catechistico della Missione di Mangonha (Massinga). Donna forte nella preghiera, accompagnava assiduamente i membri della sua comunità nei momenti di maggiore sofferenza, cercando di dare loro la consolazione del Vangelo. Una testimone ha detto di lei: “Luisa si prese cura in modo particolare dei poveri e dei malati, inoltre riuniva le famiglie per pregare nelle varie circostanze della vita”.
BRASILE – Evangelizzatori e difensori dei diritti degli indios: Simão Bororo, catechista indigeno, martire con don Rodolfo Lunkenbein
La figura del catechista indigeno Simão rappresenta un modello di cristiano “che seppe assumere la vocazione con radicalità evangelica, fece l’esperienza dell’inculturazione del Vangelo nella propria vita, testimoniò la fede personale in Gesù Cristo, condividendo la gioia del Vangelo con il suo popolo e i missionari”. Anche alla luce del Sinodo speciale per la regione Panamazzonica, celebrato nel 2019, che aveva come obiettivo quello di “identificare nuove vie per l’evangelizzazione del popolo di Dio nelle aree della grande Amazzonia, specialmente delle popolazioni indigene”, la testimonianza di Simão fa parte di quella schiera di uomini e di donne che hanno saputo integrare la difesa dei diritti sociali con l’annuncio missionario e la spiritualità, nel cammino evangelizzatore della Chiesa in Amazzonia con una dedizione generosa, fino a versare il proprio sangue. Lo sottolinea all’Agenzia Fides Don Pierluigi Cameroni, SDB, Postulatore Generale della Causa di martirio dei Servi di Dio, Rodolfo Lunkenbein, salesiano sacerdote, e Simão Bororo, laico, uccisi in odio alla fede il 15 luglio 1976 nella missione salesiana di Meruri (Mato Grosso, Brasile).
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Rodolfo Lunkenbein nacque il 1° aprile 1939 a Döringstadt, in Germania. Fin da adolescente la lettura delle pubblicazioni salesiane destò in lui il desiderio di essere missionario. Inviato in Brasile, nella missione di Meruri, venne ordinato sacerdote il 29 giugno 1969, in Germania, scegliendo come motto: “Sono venuto per servire e dare la vita”. Quindi ritornò a Meruri, accolto con grande affetto dal gruppo degli indigeni Bororo. Partecipò nel 1972 alla fondazione del Consiglio Indigenista Missionario (CIMI) e si impegnò per la difesa delle riserve indigene. Il 15 luglio 1976 venne ucciso nel cortile della missione salesiana. Nella sua ultima visita in Germania, nel 1974, sua madre lo pregava di fare attenzione, perché l’avevano informata dei rischi che correva suo figlio. Lui rispose: “Mamma, perché ti preoccupi? Se mi vogliono spaccare il dito tendo loro le mie due mani. Non c’è niente di più bello che morire per la causa di Dio. Questo sarebbe il mio sogno”.
Simão Bororo, amico di don Lunkenbein, nacque a Meruri il 27 ottobre 1937 e fu battezzato il 7 novembre dello stesso anno. Era membro del gruppo dei Bororo che accompagnarono i pionieri dei missionari salesiani nella prima residenza tra gli Xavantes, nella missione di Santa Teresina, negli anni 1957-58. Tra il 1962 e il 1964 partecipò alla costruzione delle prime case di mattoni per le famiglie Bororo di Meruri, diventando un muratore esperto e dedicando il resto della sua vita a questo mestiere. Conosceva il potere curativo delle erbe e lui stesso preparava medicinali e infusi, aiutando così la sua gente nell’assistenza sanitaria. Il suo piacere era raccontare le storie bibliche ai bambini Bororo che lo ascoltavano con piacere. Grande devoto della Madonna, recitava ogni giorno il Santo Rosario e propagò questa devozione fra i Bororo. Fu mortalmente ferito nel tentativo di difendere la vita di don Lunkenbein il 15 luglio 1976. Prima di morire perdonò i suoi uccisori.
“Con il loro sacrificio don Lunkenbein e Simão Bororo hanno testimoniato che c’è in mezzo a noi Qualcuno che è più forte del male, più forte di chi lucra sulla pelle dei disperati, di chi schiaccia gli altri con prepotenza – evidenzia don Cameroni -. I martiri non vivono per sé, non combattono per affermare le proprie idee, e accettano di dover morire solo per fedeltà al Vangelo. Si rimane stupiti di fronte alla fortezza con cui hanno affrontato la prova. Questa fortezza è segno della grande speranza che li animava: la speranza certa che niente e nessuno li poteva separare dall’amore di Diodonatoci in Gesù Cristo. Don Lunkenbein annunciava un Dio fraterno, promuoveva la giustizia e cercava una vita in pienezza per il popolo bororo, che viveva in un contesto di emarginazione, di disprezzo, minacciato da chi voleva occupare senza scrupoli la sua terra. Egli testimonia come l’annuncio del Vangelo si manifesta nel rispetto e nella promozione della cultura, delle tradizioni, di stili e ritmi di vita della popolazione indigena, sostenendone i processi di liberazione. Padre Lunkenbein e Simão hanno vissuto un vero incontro con Gesù Cristo sigillando nel sangueun’alleanza profonda attraverso il dono di sé: un’alleanza di cuori e di sogni in terre missionarie”.
Il 15 luglio 1976, nel clima infuocato per la demarcazione della terra, 62 fazendeiros, armati di pistole e coltelli, eccitati dall’alcol, arrivarono alla missione di Meruri, desiderosi di sfogare la loro rabbia. Trovarono padre Ochoa. Cominciarono a malmenarlo, gridando che i missionari erano tutti ladroni, che volevano per sé le terre degli indigeni. Arrivò padre Rodolfo, che cercò di dare spiegazioni delle norme ufficiali, e propose di fare l’elenco di tutti coloro che intendevano protestare: lui in persona avrebbe raccolto la loro protesta e l’avrebbe inoltrata alla Funai, l’organizzazione governativa che protegge gli indigeni. Padre Rodolfo scrisse quindi su un grande foglio 42 nomi. Sembrava tutto accomodato, e il sacerdote strinse a ciascuno la mano. Quando però li vide scaricare da un’auto le loro attrezzature e anche le armi sequestrate ai Bororo, padre Rodolfo ebbe un’esclamazione di stupore e di rimprovero che gli fu fatale. Venne ucciso a colpi di pistola. Simão che aveva tentato di difendere il missionario, fu colpito in pieno. La madre del giovane indio, Tereza, corse verso il figlio per soccorrerlo, e ricevette una pallottola al petto.
Il 31 gennaio, festa di San Giovanni Bosco, dell’anno 2018, Mons. Protógenes José Luft, Vescovo di Barra do Garças, ha aperto ufficialmente l’Inchiesta diocesana sui Servi di Dio Rodolfo Lunkenbein, Sacerdote Professo della Società di San Francesco di Sales, e dell’indigeno Simone Cristiano Koge Kudugodu, detto Simão Bororo, Laico. L’Inchiesta diocesana è stata chiusa il 31 gennaio 2020 ed ora la Causa è nella fase romana.
“L’esempio di fede e di amore per il Regno di Dio di Rodolfo e Simão è veramente un segno e una chiamata al rinnovamento e all’ardore missionario. Don Rodolfo e Simão fanno parte di quella lunga schiera di missionari cattolici e di indigeni assassinati mentre accompagnavano, evangelizzavano e lottavano con gli indios per i loro diritti. La lotta per la difesa della terra, dei popoli che la abitano e delle sue immense ricchezze naturali, culturali e spirituali, è stata ed è tuttora fecondata dal sangue di martiri” conclude Don Pierluigi Cameroni.
Catechisti uccisi negli ultimi anni
Peter Bata, capo catechista, è rimasto ucciso insieme ad altre persone il 26 ottobre 2021 durante l’assalto di un gruppo armato alla parrocchia cattolica di Mupoi, in Sud Sudan. Il 30 ottobre 2021 anche la Comunità Solidale, situata presso la Parrocchia di Riimenze, è stata depredata da ignoti armati. La diocesi di Tombura Yambio ha condannato fermamente gli atti di vandalismo, rapina e uccisione del personale della Chiesa non solo nella diocesi ma anche in qualsiasi altra parte del Sud Sudan. Ha inoltre esortato sia il governo nazionale che quello statale a salvaguardare lo stato di diritto e ad aderire ai principi nazionali e internazionali per la tutela dei diritti umani. La diocesi ha chiesto al governo dello Stato di dare sicurezza e protezione alla Chiesa, alle sue proprietà e al personale, garantendo il recupero di tutto ciò che è stato rubato, sia nella Parrocchia di Mupoi che nella Comunità Solidale di Riimenze e di altre proprietà interreligiose, e che gli autori siano arrestati e perseguiti secondo la legge. (Agenzia Fides 11/11/2021)
La diocesi di Tombura-Yambio, in Sud Sudan, è insanguinata da una guerra civile senza quartiere che imperversa da anni in tutto il territorio nazionale. La Curia diocesana ha inviato all’Agenzia Fides un elenco di 16 nomi tra catechisti, leader dei gruppi, operatori pastorali uccisi nell’anno 2021 durante gli scontri armati (vedi Fides 11/11/2021). Accompagnando i loro nomi, il Vescovo, Monsignor Edward Hiiboro Kussala, sottolinea: “Tutti questi sono stati uccisi con la violenza delle armi! Presi di mira e uccisi da un colpo di pistola per aver detto la verità con opere di pace!”.
I loro nomi: Luke Asogorenge (catechista), Claudio Leopard (catechista), John Babayo (giovane leader), Matthew Paul (catechista), Moses Batingbayo Angelo (catechista), Matthew Minisare (catechista), Andrew Suanyo (catechista), Santo Paingo (leader spirituale), Mary Nako (Azione cattolica), Charles Ueyo (catechista), Atilio Gadia (membro del consiglio parrocchiale), William Tere (maestro del coro), Peter Maakara (leader spirituale), Henry Romai (catechista), Juliano Ambrose Otwali (diocesi di Makakal, catechista), Arop Okew (diocesi di Malakal, catechista). Simón Pedro Pérez López, indigeno tzozil, catechista della parrocchia di Santa Catarina, a Pantelho, diocesi di San Cristóbal de las Casas (Messico), è stato ucciso la mattina del 5 luglio 2021 da uno sconosciuto in motocicletta che gli ha sparato alla testa.
Simón Pedro Pérez López si trovava al mercato di Simojovel insieme al figlio, quando è avvenuto l’attentato in cui sono rimaste ferite altre due persone. Tutti e tre sono stati portati in ospedale, dove Simón Pedro Pérez López è morto. Era catechista, promotore e difensore dei diritti dei popoli indigeni, accompagnava le comunità nella presa di coscienza dei loro diritti e nelle richieste di giustizia, sempre lottando pacificamente. Era stato anche presidente dell’Organizzazione civica “Abejas de Acteal”, i cui membri hanno intrapreso una lotta pacifica nella ricerca della giustizia dopo il massacro di 45 persone di etnia Tzotzil, per la maggior parte donne e bambini, mentre erano in chiesa, avvenuto nel 1997. ll comunicato della diocesi di San Cristóbal de las Casas dopo l’omicidio ricorda: “Il sangue di Simón Pedro e di tutte le persone assassinate possa essere il seme per la liberazione dei popoli, per risvegliare la coscienza di lottare per la pace, per costruire un future migliore per i bambini e le bambine indigene, che soffrono emarginazione, persecuzione e sfollamento. Il sangue grida pace, il sangue grida giustizia, ma non grida vendetta”. (Agenzia Fides 07/07/2021)
Il catechista Philippe Yarga è stato ucciso insieme ad un gruppo di persone di fedi diverse, durante l’assalto jihadista avvenuto domenica 16 febbraio 2020 nel villaggio di Pansi, situato non lontano da Sebba, nella provincia di Yahgha, nel nord del Burkina Faso. Tra le 24 persone uccise, il catechista cattolico era uno dei primi catechisti inviati in missione quando fu fondata la diocesi di Dori che corrisponde grosso modo alla parte del Sahel del Burkina Faso. In seguito all’attacco è stato deciso di chiudere anche la parrocchia di Sebba. La diocesi di Dori, che copre un territorio enorme in cui i cattolici, sono circa il 2% della popolazione, conta 6 parrocchie, delle quali 3 sono state chiuse a causa degli assalti dei jihadisti. Il clero è stato fatto convergere a Dori così come i catechisti, insieme alle loro famiglie. (Agenzia Fides 17/2/2020; 20/2/2020)
Il 26 ottobre 2020, Rufinus Tigau, 28 anni, nativo papuano, catechista cattolico della diocesi di Timika (nella provincia di Papua), è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco da membri di un’operazione congiunta di esercito e polizia indonesiani a Kampung Jibaguge (nel distretto Sugapa, della Reggenza Intan Jaya a Papua). Rufinus Tigau si era avvicinato alle forze di sicurezza che avevano circondato la zona dove abitava e continuano a sparare chiedendo: “Per favore, smettete di sparare. Dobbiamo parlare con calma. Qual è il problema?” Un membro dell’operativo ha puntato una pistola contro dilui, che ha immediatamente alzato le mani, tuttavia è stato ucciso a sangue freddo. L’esercito ha negato l’incidente accusando Tigau di essere un membro del Gruppo armato separatista criminale (Kelompok Kriminal Separatis Bersenjata – Kksb), termine usato per indicare appartenerti al TPN- PB. Padre Martin Kuayo, Amministratore della diocesi cattolica di Timika, Papua, ha respinto tale accusa, confermando che Rufinus Tigaus era un pacifico catechista della diocesi. (Agenzia Fides 11/11/2020; 17/11/2020)
Una catechista dei bambini, Margeli Lang Antonio, è stata uccisa durante un assalto ad una chiesa cattolica nel comune di Acacoyagua, nello stato del Chiapas, Messico. Sabato 15 giugno 2019, alla fine del corso di preparazione dei catechisti, nella cappella dell’Immacolata Concezione della parrocchia San Marcos Evangelista, due giovani sono entrati ed estraendo le armi hanno iniziato a sparare. Uno dei proiettili ha ferito Margeli Lang Antonio, che è morta quasi subito. Era molto amata dai fedeli ed impegnata a fondo nel lavoro pastorale. (Agenzia Fides 18/06/2019)
Un catechista della parrocchia del Sacro Cuore di Kajo-Keji (Sud Sudan), di nome Lino Pajo, di Mogire, è stato ucciso domenica 22 gennaio nella cappella che sorge nella località di Lomin, insieme ad altre cinque persone, da un gruppo armato. La situazione nell’area è drammatica per l’insicurezza e gli attacchi ai villaggi della zona da parte dall’esercito sud-sudanese contro quelle che sono ritenute popolazioni ostili al governo centrale di Juba. (Agenzia Fides 25/1/2017).
Il catechista Domingo Edo, è stato ucciso il 20 agosto mentre si recava a guidare una liturgia della Parola nel villaggio di Bong Mal. Era un operatore del Centro di Azione Sociale della diocesi di Marbel, sull’isola di Mindanao, nelle Filippine. Con lui si trovava anche un giovane ministrante, rimasto ferito nell’agguato. L’episodio è avvenuto nell’area della miniera del Tampakan. Domingo era impegnato per la difesa dei diritti della terra delle popolazioni indigene, minacciatedall’espansione della miniera. Negli anni passati, sempre nella stessa area, sono stati uccisi altri attivisti per i diritti umani, e gli esecutori sono rimasti impuniti.
Tre catechisti, Joseph Naga, John Manye e l’allievo catechista Patrick, sono tra le persone rimaste uccise in un’esplosione verificatasi l’11 dicembre nel campo di Minawao a Pulka, nel nord est della Nigeria, che accoglie rifugiati nigeriani rimpatriati dal Camerun. Alcuni membri di Boko Haram si sono fatti strada nel campo ed hanno fatto esplodere la loro cintura suicida uccidendo una decina di persone, tra cui i catechisti della comunità. (Agenzia Fides 13/12/2017)
Esra Patatang, 27 anni, catechista e insegnante cattolico, è stato ucciso il 12 settembre 2016 con un proiettile alla tempia nel distretto di Puncak Jaya, nella diocesi di Timika, situata nell’area meridionale della Papua indonesiana. Esra da due anni insegnava alla scuola elementare SDN Kulirik a Mulia, nel distretto di Puncak Jaya. Oltre al lavoro di insegnante, Esra guidava anche una moto-taxi per integrare il suo stipendio. E’ stato anche il leader dei giovani cattolici della parrocchia di Illaga, a Mulia. Nel pomeriggio del 12 settembre stava trasportando un passeggero da Kota Baru a Kota Lama, dove si trova anche la sua abitazione, quando è stato ucciso. “Non è chiaro cosa o chi ci sia dietro l’esecuzione. Esra è vittima di quanti usano la violenza per raggiungere i loro scopi. Esra resta un esempio per i giovani indonesiani, per la sua dedizione a servire con gioia gli altri in una situazione sociale tesa e difficile come quella in Papua”, ha detto p. Antonius Haryanto, Segretario esecutivo della Commissione per i giovani della Conferenza episcopale dell’Indonesia. (Agenzia Fides 14/9/2016)
Due giovani fratelli siriani, Anwar Samaan e Misho Samaan, animatori salesiani di 21 e 17 anni, sono morti insieme alla madre in seguito ad un razzo caduto sulla loro casa, ad Aleppo, il 10 aprile 2015. In quei giorni si è verificato un lancio intenso di missili sui quartieri di Aleppo dove è più consistente la presenza di cristiani, che hanno provocato almeno 20 morti. “Anwar e Misho – si legge nel comunicato dei Salesiani del Medio Oriente – hanno trascorso la loro fanciullezza e giovinezza nella casa di Don Bosco, e da animatori hanno lasciato nell’animo di tanti un segno di gioia e di amore alla vita”. (Agenzia Fides 14/4/2015).
Il catechista e attivista cattolico Rabindra Parichha, 47 anni, è stato ucciso in Orissa, stato dell’India orientale. Parichha operava nel distretto di Kandhamal, teatro dei massacri anticristiani del 2008 e parte della diocesi di Cuttack-Bhubaneswar, ma è stato ucciso mentre si trovava a Bhanjanagar, nella diocesi confinante di Berhampur, sempre in Orissa. L’omicidio è avvenuto fra la sera del 15 dicembre 2011 e le prime ore del mattino del 16. L’attivista era stato chiamato sul cellulare da un vicino e non ha fatto più ritorno a casa. La moglie e i figli lo hanno cercato e hanno avvisato la polizia, che la mattina del 16 dicembre ha rinvenuto il cadavere. Parichha aveva la gola tagliata e ferite da taglio alle mani e allo stomaco. Parichha, ex catechista itinerante della parrocchia di Nostra Signora della Medaglia Miracolosa a Mondasore (nel distretto di Kandhamal), da tre anni lavorava nell’Orissa Legal Aid Centre, sostenuto dalla Chiese cristiane a Kandhamal, molto impegnato come legale e attivista dei diritti umani. (Agenzia Fides 16/12/2011)
Jorge Humberto Echeverri Garro, 40 anni, professore ed operatore pastorale, l’11 giugno 2009 si trovava a Colonos, Panama di Arauca (Colombia), per partecipare ad una riunione di Pastorale Sociale incentrata sui progetti della Chiesa nella zona a favore del rinvigorimento comunitario, in accordo con la Caritas della Germania. Nel corso dell’incontro, un gruppo di guerriglieri ha invaso il centro urbano e si è diretto fino al luogo della riunione dove, senza dare alcuna spiegazione, ha colpito a morte il docente. Secondo il comunicato diffuso da Mons. Héctor Fabio Henao Gaviria, Direttore del Segretariato Nazionale di Pastorale Sociale, “Jorge Humberto, oltre ad essere riconosciuto per la sua leadership era anche catechista e membro della rete di docenti nell’ambito di un’altra proposta di Pastorale Sociale con i Centri Educativi Gestori di Pace e Convivenza, che viene attivata in questa stessa zona in accordo con l’ACNUR”. (Agenzia Fides 15/6/2009)
Il giovane William Quijano, 21 anni, della comunità di Sant’Egidio in El Salvador, è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco mentre rientrava a casa, la sera del 28 settembre 2009. Gli assassini facevano parte di una delle tante gang violente organizzate che assoldano i giovani poveri nelle periferie del Centro America. Da cinque anni William era impegnato nella Scuola della Pace ai bambini poveri del quartiere di Apopa, nei sobborghi della capitale, San Salvador. La sua vita pacifica e buona, al servizio dei giovani e dei più bisognosi era nota e rappresentava un’alternativa alle bande violente. (Agenzia Fides 1/10/2009)
Alberto Neri Fernandez, uruguayano, Focolarino, ucciso per rapina in Brasile il 19 ottobre 2002. Era un giovane medico che, dopo aver partecipato ad un seminario di studio presso l’Università del Sacro Cuore di Bauru, nello stato di San Pablo, in Brasile, stava guidando verso Votuporanga, a 200 km di distanza, dove avrebbe dovuto incontrare un gruppo di bambini che vivono l’ideale evangelico di unità dei Focolari, ma non vi è mai arrivato. Tre giorni dopo venne ritrovata la sua macchina e quindici giorni dopo il suo corpo, in una piantagione di canna da zucchero.
I suoi assassini, a cui aveva dato un passaggio, lo avevano ucciso dopo la rapina, per non essere identificati. Sul sedile posteriore della sua vettura venne ritrovato l’enorme dado che utilizzava nei suoi incontri con i bambini, con incise sulle sei facce le sei parole chiave dell’amore: “amare tutti, essere i primi ad amare, amarsi a vicenda, amare i nemici, amare Gesù in tutti, amare concretamente”. Era lo stile di vita di Alberto, trasformato in un gioco per i più piccoli. (Agenzia Fides 31/12/2002;1/10/2018).
Alcuni Catechisti Beatificati: testimoni ed esempi di fede fino al dono della vita
Il 24 maggio 2014 sono stati beatificati il missionario del PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere) padre Mario Vergara (1910-1950) ed il catechista Isidoro Ngei Ko Lat, morti martiri in Birmania, in odio alla fede nel maggio 1950. Ordinato sacerdote il 26 agosto 1934, subito dopo p. Vergara parte per la Birmania, dove lavora tra la popolazione dell’etnia karen della tribù dei Sokù, una delle più povere e primitive. Aiutato da catechisti da lui formati e affrontando innumerevoli disagi, si dedica senza risparmiarsi alla formazione umana e cristiana, ad amministrare i sacramenti, a prendersi cura degli orfani e dei malati. Dopo quattro anni di campo di concentramento insieme a tutti i missionari italiani e un periodo di cure in Italia, torna in Birmania. In seguito all’indipendenza dall’Inghilterra (1948), scoppiano disordini e la guerra civile. Padre Vergara prende le difese degli oppressi, attirandosi l’odio dei ribelli.
Il 24 maggio 1950 padre Vergara, insieme al catechista Isidoro, si reca dal capodistretto Tire per chiedere la liberazione di un altro catechista che era stato arrestato. Si trova invece di fronte il capo dei ribelli Richmond che, dopo un duro interrogatorio, ne ordina l’arresto. Entrambi furono trucidati sulle rive del fiume Salween, probabilmente nelle prime ore del 25 maggio. I loro corpi, chiusi in un sacco, furono gettati nel fiume.
Non ci sono molte notizie circa la vita del catechista Isidoro Ngei Ko Lat, che è il primo fedele birmano ad essere beatificato. Battezzato il 7 settembre 1918, Isidoro apparteneva ad una famiglia di agricoltori, convertiti al cattolicesimo. Sin da piccolo frequentava i missionari e andava spesso con loro. Entrò nel seminario minore di Toungoo, dimostrando zelo e impegno, ma a causa della salute cagionevole dovette rientrare in famiglia. Deciso ad impegnarsi comunque per il Signore, non si sposò e aprì nel suo villaggio una scuola privata gratuita, in cui impartiva anche lezioni di catechismo. Nel 1948 l’incontro con p.Vergara, che lo invitò a svolgere il servizio di catechista. Isidoro rimarrà al fianco del missionario fino al martirio.
I Beati martiri Davide Okelo e Gildo Irwa sono due giovani catechisti ugandesi, che vissero agli inizi del XX secolo. Appartenevano alla tribù Acholi, i cui componenti ancora oggi abitano prevalentemente il Nord dell’Uganda. Il loro martirio avvenne tre anni dopo la fondazione da parte dei missionari Comboniani della missione di Kitgum (1915). I due giovani erano legati da una profonda amicizia e dal desiderio di far conoscere il cristianesimo ai loro connazionali. Non si conosce esattamente la loro data di nascita, ma quella del battesimo (6 giugno 1916), della cresima (15 ottobre dello stesso anno) e del martirio (19 ottobre 1918). A quel tempo Davide aveva 16/18 anni e Gildo 12/14. Nei primi mesi del 1917, essendo deceduto il catechista del villaggio di Paimol, Davide chiese al superiore della missione di Kitgum di poterlo sostituire. Gli venne assegnato come aiutante il giovane Gildo Irwa. Il missionario gli presentò le difficoltà di tale impegno, ma Davide avrebbe risposto: «Io non temo la morte. Anche Gesù è morto per noi!».
A Paimol si dedicarono senza risparmiarsi alla loro missione, oltre a guadagnarsi il cibo lavorando nei campi. Insegnavano il catechismo, guidavano le preghiere, animavano i canti. In poco tempo furono benvoluti da tutti. Tra il 18 e il 20 ottobre 1918 morirono trafitti dalle lance di due Adwi, che avevano preso le armi contro le imposizioni dei capi coloniali. Prima di ucciderli gli chiesero di lasciare il villaggio e l’insegnamento del catechismo, così avrebbero avuto salva la vita, ma essi rifiutarono. Sono stati beatificati il 20 ottobre 2002, Giornata Missionaria Mondiale.
Il Beato Ramose Lucien Botovasoa, padre di famiglia, laico terziario francescano, maestro di scuola elementare, catechista, venne ucciso il 17 aprile 1947 a Vohipeno (Madagascar), ed è stato beatificato il 15 aprile 2018 sempre nel piccolo villaggio di Vohipeno, nella provincia di Fianarantsoa, dove era nato nel 1908, primo di nove figli, in una famiglia tra le prime del villaggio ad essersi convertita al cristianesimo. La sua giornata era scandita dalla preghiera, dall’impegno nella catechesi e per la sua famiglia, nel contesto di una vita vissuta in povertà francescana. Sempre sorridente e disponibile, diventò non solo l’insegnante del villaggio, ma il primo e più fedele catechista della parrocchia. Fu padrino di 85 battesimi, favorì numerose conversioni, era considerato il punto di riferimento per la comunità cristiana locale.
Nel clima di violenza indipendentista dalla Francia, dopo la Seconda Guerra Mondiale, le chiese vennero date alle fiamme e cominciò la caccia ai missionari e ai cristiani. Lucien venne condannato a morte “perché seguace di Cristo”. I Vescovi del Madagascar lo hanno definito modello di patriottismo, martire della fede e della carità. Era un uomo incorruttibile, testimone della verità e della riconciliazione, che ha donato la sua vita per la nazione dicendo: “che il mio sangue versato serva per la salvaguardia della mia patria”.
Il Beato Peter To Rot (1912-1945), catechista, martire, primo beato della Papua Nuova Guinea, venne ucciso ai tempi dell’occupazione giapponese per aver rifiutato di accettare la poligamia. E’ ricordato come uomo di coraggio e fortezza nella fede, di preghiera, oltre che di determinazione nel seguire Gesù Cristo con la sua vita fino alle conseguenze estreme. Peter To Rot era un “cristiano della seconda generazione” che seguiva le orme dei suoi genitori. Era un padre di famiglia, catechista, insegnante, ed è morto martire in difesa della sua fede cristiana, dopo aver lavorato duramente per diventare un buon insegnante e un bravo catechista. Sposatosi, visse una vita coniugale e familiare secondo gli insegnamenti del Vangelo. Difese i valori del matrimonio e resistette alla tradizionale cultura della poligamia e alle leggi dell’esercito imperiale giapponese, e morì sostenendo la sua fede.
E’ stato beatificato il 17 gennaio 1995 da Giovanni Paolo II durante il suo viaggio pastorale in Papua. Durante l’omelia il Papa si rivolse in modo particolare ai catechisti: “Sono particolarmente felice che qui ci siano molti catechisti da tutta la Papua Nuova Guinea. Voi, cari catechisti, siete «testimoni diretti ed evangelizzatori insostituibili… la forza fondamentale delle comunità cristiane». Fin dall’inizio, l’opera dei catechisti laici in Papua Nuova Guinea ha dato «un contributo eccezionale e indispensabile alla diffusione della fede e della Chiesa». A nome di tutta la Chiesa vi ringrazio per il sacro lavoro che state compiendo. Che Dio ricompensi e benedica ciascuno di voi.”
La Beatificazione di dieci martiri della diocesi guatemalteca di Quiché si è svolta a Santa Cruz del Quiché il 23 aprile 2021. Questa terra, come gran parte dell’America latina, è stata bagnata dal sangue di tanti martiri, “fedeli testimoni di Dio” e del suo Vangelo, impegnati a costruire la comunità e la società secondo i valori del Regno. I 3 sacerdoti missionari e i 7 laici beatificati, tra cui un ragazzo di 12 anni, vennero uccisi in odio alla fede tra il 1980 e il 1991. Erano spinti unicamente dall’amore a Dio e ai fratelli più poveri, in un periodo di persecuzione della Chiesa e di violenza contro tutta la popolazione. Oltre ai sacerdoti, Missionari del Sacro Cuore di Gesù, tutti nati in Spagna, sono stati beatificati 7 laici: Domingo del Barrio Batz, sposato, ucciso insieme a padre Cirera; Juan Barrera Méndez, 12 anni, membro dell’Azione Cattolica; Tomás Ramírez Caba, sposato, sacrestano; Nicolás Castro, catechista e ministro straordinario della Comunione; Reyes Us Hernández, sposato, impegnato nelle attività pastorali; Rosalío Benito, catechista e operatore pastorale; Miguel Tiu Imul, sposato, direttore dell’Azione Cattolica e catechista.
Nel messaggio per la beatificazione, i Vescovi del Guatemala hanno scritto: “Benedetto è il sangue versato da questi nostri fratelli, perché loro, con la loro testimonianza, ci hanno mostrato cosa significa amare Gesù Cristo… Beati i martiri di un popolo indigeno benedetto dalla fede in Gesù Cristo, perché ci hanno mostrato fino a che punto può arrivare la dedizione di un catechista o di un missionario”.
Il missionario degli Oblati di Maria Immacolata (OMI) padre Mario Borzaga (1932-1960) ed il catechista laico laotiano Paolo Thoj Xyooj, vennero uccisi in Laos nel 1960 dai guerriglieri comunisti Pathet Lao. Entrambi sono stati beatificati a Vientiane l’11 dicembre 2016 con altri 15 martiri, tra missionari e laici laotiani, i primi martiri di quella Chiesa. Il 25 aprile 1960 padre Borzaga ed il suo fedelissimo catechista Paolo, diciannovenne di etnia hmong, dotato di un carisma particolare e molto attivo nell’attività catechistica, erano partiti a piedi da Kiukatian diretti verso diversi villaggi, per incontrare i catecumeni che desideravano ricevere il battesimo e per assistere gli ammalati. Dal loro viaggio non sono mai ritornati ed i loro corpi non si sono mai ritrovati.
Solo dopo quarant’anni si sono avute notizie precise del loro martirio. Secondo le cronache i due vennero intercettati nel loro viaggio missionario, che sarebbe dovuto durare alcune settimane, dai guerriglieri comunisti del Pathet Lao, che li hanno uccisi senza pietà. I loro corpi, gettati in una fossa comune nella zona di Muong Met, sulla pista verso Muong Kassy, non sono mai stati ritrovati. I confratelli hanno scelto il primo maggio come data convenzionale della morte, perché le ultime pagine del diario del missionario, intitolato “Diario di un uomo felice”, risalgono alla fine di aprile.
Il 27 ottobre 2018 a Morales, in Guatemala, sono stati beatificati il missionario italiano padre Tullio Maruzzo, Ofm, ed il catechista indigeno Luis Obdulio Arroyo, “testimoni fedeli di pace e di impegno cristiano nel dipartimento di Izabal, in anni di violenza e persecuzione”. P. Tullio Marcello Maruzzo, nato in provincia di Vicenza, Italia, il 23 luglio 1929, era missionario in Guatemala dal 1960. Dopo una vita di intenso apostolato, venne ucciso a Quiriguà, nel dipartimento di Izabal, il 1 luglio 1981. Nell’ attentato perse la vita anche Obdulio Navarro, “un giovane catechista terziario francescano che non si staccava mai da lui, pur sapendo di essere estremamente pericoloso farsi vedere in sua compagnia”. Luis Obdulio Navarro, francescano secolare guatemalteco, laico della diocesi di Izabal, catechista e collaboratore in diverse attività religiose, era nato il 21 giugno 1950 a Quiriguá, Los Amates, Izabal (Guatemala). Aveva trent’anni quando fu ucciso nell’imboscata.
Nell’omelia della Messa di beatificazione, il Cardinale Angelo Becciu, Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, ha ricordato così i due beati: “Uno era sacerdote e religioso francescano, dei frati minori, e l’altro fedele laico catechista, eppure li accomunava essenziali tratti di spiritualità: lo stile di vita semplice e lieto, proprio di chi è povero in spirito; l’ardente zelo per il Vangelo, che sostiene gli operatori di pace; la premurosa cura dei poveri e la coraggiosa difesa degli ultimi, che contraddistinguono gli uomini di buona volontà. Erano tratti che costituiscono per noi un messaggio ancora attuale”. Ha quindi invitato ad invocare la loro intercessione, “affinché il loro martirio favorisca in tutti il coraggio della testimonianza cristiana, la coerenza della vita e la donazione senza limiti verso gli altri”.