NON LA POLIZIA MA UNA VERA DIPLOMAZIA PUO’ FERMARE TERRORISMO E GUERRE. Analisi dell’ex Funzionario INTERPOL Italiano sull’Allarme Jihadisti

NON LA POLIZIA MA UNA VERA DIPLOMAZIA PUO’ FERMARE TERRORISMO E GUERRE. Analisi dell’ex Funzionario INTERPOL Italiano sull’Allarme Jihadisti

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Nell’immagine di copertina l’ex funzionario Interpol Antonio Evangelista e il leader dei terroristi HTS Al Jolani del nuovo governo provvisorio siriano di cui il superpoliziotto ha espresso in vari articoli e interviste l’estrema pericolosità

di Antonio Evangelista – ex funzionario Interpol

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Tutti i link alle precedenti inchieste di Gospa News sono state aggiunte dalla Redazione a posteriori per attinenza coi temi trattati

Dopo le mie esperienze di polizia giudiziaria in Italia, che rientravano nell’ordinario, ho avuto modo di lavorare all’estero in indagini su crimine organizzato, crimini di guerra e terrorismo. All’estero, spesso, capitava di ritrovarsi a cena, a latere degli incontri di lavoro, coi cosiddetti esperti, di solito mandati dall’Unione Europea o dalle Nazioni Unite, per conoscersi meglio nella prospettiva futura di lavorare insieme sul campo.

Operando con loro sul campo si poteva comprendere che di esperto avevano solo il titolo, perché le loro conoscenze erano basate su ‘copia-incolla’ di lavori altrui e le loro analisi erano la sbobinatura di quanto detto da quelli che avevano maturato l’esperienza sul posto veramente.

L’ex funzionario Interpol Antonio Evangelista, già aggregato all’Ambasciata Italiana di Amman, in Giordania, mentre firma gli autografi per il suo nuovo saggio geopolitico “Mediterraneo, Stesso Sangue Stesso fango”

I momenti di convivialità erano molto interessanti, perché era a tavola che venivano fuori le tematiche e le domande più importanti. Ricordo di un ambasciatore, non ricordo se del Regno Unito o degli Stati Uniti, che poi era finito a lavorare per le Nazioni Unite quando mi chiese: “come giudichi, da poliziotto, il tuo intervento e il tuo ruolo qui in KOSOVO in termini di efficacia ed efficienza?”.

Gli risposi che il nostro lavoro non serviva a niente, perché la polizia agisce nella fase acuta, come il pronto soccorso di un ospedale, il che vuol dire che quando arriviamo noi è già tardi. È ovvio che quando sei sulla scena del crimine agisci nell’immediato e non c’è piano B, come quando una persona sta per morire e ha bisogno di un intervento del ‘pronto soccorso’.

La Cultura Sociale della Prevenzione del Terrorismo

Ma se poi mancano reparto della profilassi, l’educazione sanitaria, la prevenzione, riabilitazione, ecc. l’intervento in emergenza è fine a se stesso. Ecco noi siamo il ‘pronto soccorso’ e se manca educazione, prevenzione, famiglia, scuola… la situazione, socialmente parlando, non cambia.

Quando faccio l’esempio del pronto soccorso mi riferisco, spesso, al Kosovo. Perché è lì che eravamo realmente operativi, mentre in Bosnia ricoprivamo un ruolo più simile a quello del consigliere e, per quanto riguarda me, essendo stato in Bosnia negli ultimi anni delle missioni EU in Iugoslavia, fu più un lavoro di analisi, lettura, ricerca e studio.

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Comunque, la reazione dell’ambasciatore alla mia risposta fu di ‘sorpresa’ e curiosità. Mi rendo conto del fatto che la mia non fu una risposta ‘tipica’ da poliziotto, ma più da civile che stava vivendo il Kosovo in quel momento e che, al di fuori dell’orario lavorativo, stava e mangiava con la gente del luogo, che interagiva con bambini, vecchi, donne… insomma le vere vittime delle guerre.

Dalla mia personale esperienza, in particolare in Kosovo, ho imparato che il nostro lavoro serve se c’è tutto il resto. Che se intervieni sulle cause, vedrai i risultati già a partire dalla seconda o dalla terza generazione. Perché prevenzione vuol dire, poi, educare. E fondamentale in tal senso è il ruolo delle scuole, per la loro valenza educativa e per lo spazio di convivenza tra persone che rappresentano.

Ricordo che in Kosovo i bambini andavano a scuola su due turni, perché molti istituti erano stati bombardati. Le due turnazioni coprivano mattina e pomeriggio, perciò io osservavo le ‘nuove generazioni’ dall’alba al tramonto e mi chiedevo ‘cosa sarà di loro?’ consapevole che il mio intervento ‘poliziesco’ era solo un segmento di quanto era necessario in quel contesto, per quella gente. Mi confrontavo con le giovani interpreti che lavoravano con noi, tutte laureate, giovanissime… ma cresciute in fretta a causa della guerra. E speravo di ottenere la loro fiducia per capire, confrontarsi, scusarsi… quella era la vera sfida! Scuola, famiglia, cultura, tradizioni… erano i veri strumenti per quelle persone ferite nell’animo prima ancora che nel corpo.

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I territori afflitti da conflitti, terrorismo e mafie hanno un aspetto in comune: la radicalizzazione attecchisce nei bacini dove ci sono miseria e povertà, mentre l’ignoranza e l’impossibilità di andare a scuola fanno il resto, essendo due ingredienti che impediscono ai giovani di formulare un proprio pensiero. Contesti differenti, medesimi meccanismi: è necessario intervenire nelle scuole e investire su educazione e cultura, dunque non soltanto su militari e poliziotti. E di questo ne sono ancora più convinto oggi che sono in pensione e mi limito a osservare e dove possibile a condividere la mia esperienza con chi sa ascoltare.

La PolitIca senza Visione del Dialogo Internazionale

La politica può e deve avere un ruolo nella costruzione di culture del dialogo. È la politica, infatti, che dovrebbe possedere una visione e fare investimenti per darle concretezza sul lungo periodo per le future generazioni.

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Ma oggi, purtroppo, abbiamo delle classi politiche che non possiedono alcuna visione, né domestica né internazionale, e che pertanto navigano a vista. Ogni loro intervento politico è caratterizzato da letture degli eventi fortemente miopi, che si tratti di scuola, di sanità, di sicurezza. Oggi assistiamo all’assenza di politici visionari o, perlomeno, all’assenza di politici intenzionati a prendersi cura degli interessi collettivi.

Non è qualunquismo affermare che i politici di una volta erano diversi. Sia beninteso: anche loro avevano come principale preoccupazione il mantenimento del potere, ma allo stesso tempo avevano delle visioni, condivisibili o meno, che ora mancano del tutto. Prendiamo come esempi gli eventi in Ucraina e in Israele: in entrambi i casi sembra che l’unica intenzione dei leader sia quella di creare il disastro più totale per vendere il maggior numero possibile di armi, anche ricorrendo alla creazione di “massacri contraffatti”, dove i cadaveri ‘non sanguinano’, per dirne una. E se qualche, pochi in verità, inviato di guerra solleva dubbi viene subito silenziato.

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La politica odierna interviene, sì, ma nel senso più becero e materiale del termine: si trova il casus belli per entrare in un paese, successivamente se ne depredano le risorse fino a cagionare il fallimento dell’economia. La politica odierna consiste nel girovagare per il mondo alla ricerca di vetri da rompere, avendo quello nuovo, pronto per la sostituzione, in tasca: creare il problema e proporre la soluzione già pronta in tasca. Questa non è però politica, non la politica nel senso più elevato che le viene dato, bensì taglieggiamento. Lo abbiamo visto anche sulle guerre dei gasdotti tra Stati Uniti e Russia, che hanno raggiunto il picco col sabotaggio ‘annunciato’ dagli USA del Nord Stream 2.

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Diplomazia… Non Pervenuta!

Mi verrebbe da dire che, politica a parte, non è comunque più pervenuta la diplomazia, almeno da ciò che trapela dalle informazioni pubbliche.

Anche perché quella del diplomatico, purtroppo, è una professione che, per esigenze di carriera, può indurre anche i più talentuosi a diventare degli yes men… è il grande problema dei funzionari della Pubblica amministrazione. Carriera oppure ‘schiena dritta’.

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D’altro canto, c’è sempre chi sceglie la fedeltà all’incarico, al giuramento, e che, qualora le circostanze lo richiedessero, sarebbe disposto a tirare la giacchetta al superiore o a dare consigli non richiesti né graditi. In questo senso, il diplomatico dovrebbe essere colui che suggerisce al politico, sia quando quest’ultimo ha una visione sia quando non ce l’ha.

La mia lettura del contesto internazionale attuale e futuro è pessimistica. Sebbene io auguri a me stesso di sbagliare, facendo mente locale ricordo che un anno fa, durante un’intervista sulla crisi israelo-palestinese, dissi quanto segue: “se gli israeliani faranno tabula rasa, significa che gli interessi sono di carattere geo-energetico”. Dissi questo facendo l’esempio degli attentati di Monaco di Baviera del 1972, ai quali Israele rispose individuando gli autori e le menti della strage uno ad uno.

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Perché oggi, contrariamente da allora, Israele sta invece procedendo alla distruzione sistematica?

Perché ti può permettere di controllare per intero un territorio in precedenza abitato da un altro popolo così da, nel caso specifico, sfruttare il giacimento gasiero Gaza Marina e costruire, chissà, il tanto discusso canale Ben Gurion. E comunque non sappiamo ancora perché sono stati ignorati gli allarmi di attacchi terroristici provenienti da Egitto, USA e dagli stessi Servizi Segreti di Israele.

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Leggendo la guerra israelo-palestinese da questa prospettiva geo-energetica, la strategia della tabula rasa acquisisce un senso: è propedeutica alla trasformazione di Israele nell’hub energetico e commerciale del Mediterraneo sudorientale.

Ed è qui che entra in gioco la già citata mancanza di visione, male che affligge in egual misura i politici occidentali e non, perché è necessario porsi delle domande su quali frutti emergeranno dai semi piantati da Israele in questa guerra e su come potenze come la Turchia reagiranno a un Israele potenziato negli anni a venire.

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Ma c’è di più. Sono dell’idea che Israele abbia piantato, sempre nel corso di questo violento conflitto coi palestinesi, dei semi destinati ad assumere una forma: i terroristi del domani.

La mia è una previsione data dalla conoscenza del contesto mediorientale, dove il fattore religioso è ancora molto forte e rende più sicuro che probabile il futuro ripresentarsi di una nuova ondata di terrorismo.

Forse non arriveremo ad avere dei fenomeni come lo Stato Islamico, che si strutturò come entità politica e amministrativa fondata sul Corano, ma assisteremo al terrorismo dei dirottamenti, degli investimenti automobilistici, degli accoltellamenti e dei kamikaze. Quest’ultima forma di terrorismo si ripresenterà con maggiore vigore e sarà difficile da fronteggiare.

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È necessario, avendo come orizzonte il lungo periodo, investire su scuola, famiglia, cultura e diplomazia. E non mi riferisco soltanto al Medioriente, ma anche all’Europa, dove tra Russia e Ucraina si è preferito elevare lo scontro alla massima potenza e abiurare il dialogo come forma di risoluzione delle differenze, anche quando feroci. Questo è accaduto perché la diplomazia ha trovato un ostacolo insormontabile in un convitato di pietra: le lobby delle armi… le uniche a fare profitti ‘infiniti’ sul sangue di innocenti.

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Occorrono nuovi modi di pensare la diplomazia. Guardando a est, ai BRICS+, abbiamo un ottimo esempio di collaborazione tra grandi potenze mescolante obiettivi politici e interessi economici. È un formato che richiede dispendio di tempo, perché il processo decisionale è ripartito tra pari, ma che ha dimostrato di funzionare. Non si può andare avanti con le tradizionali politiche del passato, basate sull’imposizione del proprio volere con la forza. Occorre ingegnarsi per sviluppare nuove idee.

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Se mi guardo indietro, mi sovvengono i ricordi di quando si giocava a calcio all’oratorio o al parco, a decidere il campo e il portiere era sempre il proprietario del pallone e tutti dovevano ‘subire’ se volevano giocare. È così anche in politica: decide chi ha il controllo degli strumenti essenziali… spesso il più prepotente e non necessariamente il più equilibrato. Forse è il caso di iniziare a pensare di presentarsi sul campo portando il proprio pallone da casa, in modo da non dipendere dagli altri.

di Antonio Evangelista – ex funzionario Interpol

Articolo pubblicato in origine da MasiraX – ripubblicato con il consenso dell’autore


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Antonio Evangelista – Esperto di crimine organizzato transnazionale e terrorismo internazionale. Una vita dedicata alla giustizia, in Italia e all’estero, che inizia con una laurea in Giurisprudenza alla Sapienza di Roma e prosegue con una carriera internazionale nell’antiterrorismo.

Tra i ruoli ricoperti: dirigente della Squadra Mobile e della Digos ad Asti, comandante della missione di polizia italiana in Kosovo sotto l’egida delle Nazioni Unite, consulente per la Direzione di polizia dell’Entità serba della Bosnia ed Erzegovina nel contesto della missione europea EUPM, dirigente dell’Interpol al Servizio Cooperazione Internazionale di Polizia, prima a Roma e infine ad Amman.

È noto per aver intercettato e isolato, nell’ottobre 2015, un tweet premonitore sui preparativi dello Stato Islamico per colpire Parigi il mese seguente. È autore, inoltre, di vari libri basati sulle sue esperienze investigative, tra cui “Madrasse – Piccoli martiri crescono tra Balcani ed Europa” e “Mediterraneo. Stesso sangue, stesso fango”.


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Antonio Evangelista

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